domenica 7 giugno 2009

mercoledì 8 aprile 2009

Mostra Fotografica Patas Arriba

Immagini scattate nell'ospedale psichiatrico Colonia Motes de Oca di Torres 
e all'interno dell'ospedale psichiatrico Borda di Buenos Aires
durante una trasmissione di Radio "La Colifata"

La mostra inizia il 20 aprile presso enoteca ALTOTASSO, piazza S. Francesco 6/d, Bologna.

martedì 17 marzo 2009

Viaggio a 180° esperienze di sola andata...

L'associazione "Non andremo mai in TV..."
è lieta di invitarvi all'inaugurazione della manifestazione
Viaggio a 180° esperienze di sola andata... 
tra retrospettive ed anticipazioni di sane politiche...
che si terrà Giovedì 19 Marzo 
presso la sede del Quartiere Savena, V. Faenza 4, alle ore 18.30

Cena Patasarriba - Orti, marzo 2009 - 03



Cena Patasarriba - Orti, marzo 2009 - 02





Cena Patasarriba - Orti, marzo 2009 - 01





venerdì 6 marzo 2009

Cena a sostegno di Patasarriba

Sabato 14 marzo alle ore 18,30
presso Centro Orti Anziani
Via Bel Poggio 1/e - Imola (BO)
Cena a cura del gruppo gastronomico
I Polentari di Tossignano

Cena a euro 12,00

Prenotazioni: 338/3874547 (Ennio)

Tutti insieme appassionatamente: manifestazione conclusiva

L’appuntamento è all’incrocio fra Avenida 9 de Julio e av. De Majo, a una ventina di minuti a piedi dal nostro albergo.

Sabato pomeriggio: è la manifestazione finale, quella dove ci saremo tutti, noi italiani e i vari gruppi e associazioni che abbiamo incontrato in questi giorni.

Qualcuno si è dato appuntamento con qualcun altro che ha conosciuto in  questi  nove giorni di Argentina, noi emiliani decidiamo di andarci tutti insieme.

Quasi tutti hanno  bandiere o cartelli.

Io vado con Daniela, Tiziana e Cristina. Annamaria è troppo stanca per fare tutta quella strada a piedi: la cosa le costa per via del ginocchio che le fa male. Dopo un poco però perderò di vista le altre e continuerò a marciare con Cristina.

Passiamo davanti all’incrocio del ristorante Oriente dove mangiamo da un po’ di giorni, con i suoi lavori in corso e i suoi bambini di strada che spesso ci chiedono l’elemosina: una delle note più laceranti dell’intero viaggio.

Il concentramento ci mostra subito cosa ha significato il viaggio per i nostri amici argentini e le realtà che abbiamo contattato in questi giorni: oltre agli altri gruppi italiani, tutti presenti, c’è tanta gente, di tutti i tipi, dagli operatori agli utenti. E’ una specie di sintesi dei partecipanti multinazionali a Patas Arriba.

Gli argentini sono presenti con tutta la forza e il “colore” dello spirito latinoamericano. Maschere, cartelli palloncini, strumenti musicali e canti

Una nota a margine: nei giorni che siamo stati a Buenos Aires abbiamo visto manifestazioni di protesta quasi tutti ti giorni, ora in centro ora in altri quartieri della città: manifestazioni con tanto di mega ingorghi di traffico, colorate e vocianti, sulla casa o sul lavoro, ci è sembrata una situazione politica molto vivace. A chi come noi viene da lontano fa pensare che gli argentini si stanno riprendendo le strade dopo gli anni bui della dittatura, rievocati così bene da “Las madres” nei racconti che ci hanno fatto.

Io e Cristina continuiamo a salutare facce che stanno diventando familiari e nuovi amici, a un certo punto il corteo prende forma e parte e noi ci lasciamo trascinare dallo spezzone dei tamburi: un folto gruppo di ragazze con dei grandi tamburi che suonano, cantano e camminano fra balli e saltelli.

Da quel momento la musica diventa per me l’elemento dominante della situazione: ballo e canto anch’io. La musica e l’elegante energia dei giovani corpi danzanti.

Il tempo, incerto e spesso nuvoloso in questi ultimi giorni in cui acquazzoni tropicali hanno smorzato la calura dei giorni precedenti, si fa minaccioso, ma nessuno ci fa caso. Comincia a piovere. Ancora nessuno pare farci caso finché la pioggia non diventa temporale, un rovescio che in un attimo sbaraglia i cartelli e inzuppa gli striscioni. Le ragazze continuano imperterrite a suonare mentre io penso alla sorte dei tamburi infraciditi.

La furia della tempesta rende impossibile procedere nella strada allagata fino alle caviglie quando la folla comincia a cercare un inutile riparo sotto delle impalcature. Qualcuna continua a suonare ma la cosa diventa ben presto impossibile.

Con Cristina ci guardiamo preoccupate: restiamo in attesa che il temporale si attenui o ci avventuriamo verso casa? Acqua per acqua, non ci pare che ci bagniamo di più se torniamo che se restiamo, e ormai fradice come siamo cominciamo a tremare dal freddo, così decidiamo di tornare.

Il ritorno è un’avventura: nella strada fattasi semideserta in molti fanno la nostra stessa scelta e si avviano di corsa. Le macchine rallentano ma molti automobilisti sono in difficoltà, il che rende gli attraversamenti imprese inquietanti.

Nel frattempo qualche raggio di sole spunta nella bufera d’acqua che non si arresta, e così, con una luce bagnata ma colorata, riattraversiamo Av. 9 de julio, con le sue 14 (quattordici) corsie automobilistiche e tre semafori. L’attraversiamo con tutta la velocità di cui Cristina (un po’ lenta per la verità) è capace, arriviamo accolte quasi in braccio dai nostri amici.

Il tempo della doccia calda serve per raccontare di nuovo e di nuovo i cento particolari della manifestazione: i manifesti, le facce, le speranze in quelle facce e la contentezza che vi si leggeva per sentire solidarietà da così lontano.

Tutte insieme ci auguriamo che il processo di demanicomializzazione proceda, da quelle parti… e che i continui tagli al sociale italiano non producano una formidabile restaurazione qua da noi, come tanti segnali fanno purtroppo presagire. 

Lucia

giovedì 19 febbraio 2009

Venerdì 28 novembre - La Boca (Buenos Aires)

Meglio che alla Bombonera 

Secondo le nostre aspettative il pomeriggio del 27/11/08 avremmo dovuto pestare l’erba di uno degli stadi più famosi al mondo: la mitica Bombonera.

Ogni persona appassionata di calcio sa che potrebbe essere un momento molto suggestivo ed emotivamente importante. Saliamo sui soliti pullam molto eccitati, tanti di noi con le scarpette ”ingrassate “ al punto giusto.

Fuori piove ma a pochi importa se il prezzo da pagare sarà giocare sotto la pioggia. Durante la riunione organizzativa dell’ A.N.P.I.S. (programma “dettagliato” del nostro soggiorno) sono stato incaricato di raccogliere le adesioni di quante persone desideravano giocare; da più parti mi arrivavano richieste che andavano sempre nella stessa direzione:”ma ci sarà spazio per tutti? Anche 5 minuti ma noi ci terremo a giocare tutti”; ed avanti di questo passo.

Quando durante il tragitto ci hanno comunicato che, visto le abbondanti piogge dei giorni scorsi e il concreto rischio di pioggia anche nella giornata odierna le partite si sarebbero dovute svolgere all’interno di una palestra, gestita dal Club Boca Junior, nei pressi del grande stadio, la nostra delusione è stata cocente.

La frase più ricorrente è stata ” c’era da immaginarselo che non ci avrebbero fatto giocare dentro il mitico Bombonera”; io stesso avevo un’idea non molto distante da questa.

La partita di calcetto che la nostra rappresentativa Emilia Romagna ha giocato con una squadra d’Argentini, persone ricoverate presso l’ospedale psichiatrico Colonia Montes de Oca, è stata bellissima e colma di intensità emotiva. Il livello di impegno profuso è stato alto, si è lottato su ogni pallone, i visi tirati dei contendenti esprimevano gioia: il piacere di correre dietro un pallone  che tuttavia sarà cosa poco nobile, ma che fa sentire cosi tanto vivi.

In campo abbiamo scambiato poche parole, un po’ per la lingua, un po’ per non rubare spazio al gioco; ad ogni palla in rete, Argentina o Italiana che fosse, tutta la numerosa panchina della rappresentativa dell’Emilia Romagna si precipitava in campo ad abbracciare lo sbalordito goleador e questo è stato il modo migliore per esportare il modello A.N.P.I.S. che è maturato nella nostra regione , per il quale giocare una partita di calcio è un’opportunità in cui ciascuno può esprimersi con gli altri. L’eccitamento che scaturisce per un’impresa eccezionale come quella di siglare un goal diviene l’occasione per condividere un momento gioia poiché, a mio avviso non condividerlo, ridurrebbe, quell’evento a ben poca cosa .

I nostri avversari Argentini si sono resi immediatamente disponibili a partecipare a questo momento di festa collettiva.

Il problema è stato sgombrare il campo dalla nostra presenza. Ci siamo trattenuti a far firmare le bandiere portate dell’Italia e a provare ad interloquire alla meno peggio.

Ci siamo veramente divertiti , ci ho pensato più di una volta, è stato bello giocare con quelle persone su quel campetto in quella palestra e probabilmente la perfetta erba del mitico Bombonera, a distanza di tre mesi non mi avrebbe lasciato un ricordo altrettanto intenso.

Dopo la partita abbiamo visitato lo stadio e il museo al suo interno dove alcuni di noi hanno acquistato alcuni souvenir. Dopo abbiamo fatto una passeggiata all’interno del quartiere Caminito

fino all’ora di cena consumata in due ristoranti probabilmente aperti appositamente per noi, animati al ritmo di tango, ballato da due bravissimi professionisti (o molto vicino ad esserlo).

Tutto molto bello probabilimente un po’ finto. Con noi c’erano anche alcune persone conosciute alla Plata e “ospiti” (per usare un eufemismo) del manicomio femminile ma  mentre noi ci si apprestava a sederci per cenare loro rientravano perché per loro era già tardi come detto Carmen, la psicologa volontaria del C.D. Basaglia. È stata una grossa ferita, mi sono sentito tanto turista. 

Una particolare nota di stima alla ADESAM, associazione argentina di operatori e volontari che senza un pesos si adoperano con tanta passione. Una passione che dà speranza ed ha tanto da insegnare.   

Andrea da  Ferrara

mercoledì 18 febbraio 2009

Pranzo a favore del progetto PATASARRIBA

(clicca sull'immagine per ingrandire)
Prenota entro il 5 marzo al 051/570176

Radio La Coliafata (2)

Siamo alla Colifata una postazione radio in mezzo al parco del Borda, uno dei grandi manicomi di Buenos Aires  che ospita circa un migliaio di persone.

Quando arriviamo troviamo un gruppo di persone, tutte sedute a formare un ampio cerchio. L’attrezzatura necessaria per la trasmissione, pc, mixer microfoni e altro,  è collocata su una sedia di legno ed un vecchio carrello che da giovane probabilmente era stato utilizzato come   portavivande o dispensario per gli psicofarmaci: un lavoro noioso. Oggi  occupa una posizione invidiabile. Si trova al centro di un via vai di voci e di suoni che grazie alla tecnologia  di quegli strumenti che poggiano il loro peso sulla sua schiena possono raggiungerlo ed essere inviati, lontano, verso destinazioni sconosciute.

Due persone conducono la trasmissione. Una di loro, in diretta radiofonica, spiega chi siamo e ci presenta al gruppo di colifisti i quali ci accolgono con entusiasmo. Tra i presenti qualcuno si azzarda a cantare qualche strofa di una canzone  napoletana; altri ci salutano con un “Forza Italia”, un altro ancora invia un messaggio augurale “con tutti i pazzi  e con patasarriba creeremo un mondo migliore”: preferiamo quest’ultimo slogan.

Riceviamo la notizia che possiamo usare la macchina fotografica  e la video camera.

All’entrata ci avevano sconsigliato di mostrarle e le avevamo nascoste nei nostri zainetti in attesa di essere autorizzati. La strategia della negoziazione ha funzionato ed uno dei medici in servizio che conosce Ugo, uno psichiatra italiano di Torino che ci ha permesso di prendere contatto con i responsabili della radio e che fa parte del nostro gruppo, ci comunica la bella notizia. 

Come degli assetati dopo un lunga marcia sotto un sole cocente estraiamo velocemente le nostre macchine  e cominciamo a dissetarci alle fonte di quelle immagini che si animano davanti a noi e che avidamente, catturiamo con le nostre macchine da ripresa.

Ci saluta con grande affetto il presidente della Colifata, un anziano signore che proprio in questa giornata festeggia il proprio compleanno. Ci uniamo al coro che parte spontaneo e la canzoncina “tanti auguri a te…scavalca le mura del Borda e si incammina per il mondo

Intervengono Nives, Rita, Daniele, ….insieme portano il saluto ed il sostegno di tutti noi emiliano romagnoli  alla lotta antimanicomiale degli argentini.

Ora sono le mani di Hugo Lopez che stringono il microfono. Hugo, collabora da anni con la radio.  Per tantissimo tempo ha vissuto nell’ospedale psichiatrico ma ora finalmente vive in una casa vera a Buenos Aires. Hugo, un poeta all’impronta, è un vero mattatore della trasmissione, circola la voce che ha suonato con Manu Chao.Le sue parole sono una valanga di saggezza. Esordisce così: Patasarriba vuol dire rivoluzione e rivoluzione vuol dire evoluzione… il resto è una delizia per le nostre orecchie.

Radio La Colifata è un’ esperienza straordinaria ed i protagonisti sono loro, molti dei quali ancora ricoverati. I colifisti hanno la capacità di suscitare l’entusiasmo di chi si avvicina alla loro postazione. Tanto ritmo, tanta musica che spontanea nasce la voglia di ballare e senza accorgercene ci troviamo  a muoverci all’interno dell’ampio cerchio in mezzo ai grandi alberi  del parco seguendo le note che si riversano nello spazio che calpestiamo. Anche qui come durante gli altri incontri ai quali abbiamo partecipato in terra argentina la musica è sempre stato il collante naturale che ha  tenuto assieme le persone e le loro storie.

Alle spalle di chi è alla consolle, su una grande lavagna nera, col gesso una mano ha scritto il programma della trasmissione di oggi. Il palinsesto della giornata è fittissimo. La trasmissione è iniziata alle 15 e 30 e si concluderà alle 19 e 30. Gli interventi sono tanti e tutti speciali. Chi prende la parola racconta le esperienze di vita o presenta personali produzioni narrative. Le persone che incontriamo hanno maturato una grossa competenza e si mostrano particolarmente esperti nel dare vita alla trasmissione. Tutti noi ci chiediamo cosa ci facciano li dentro. Ci immaginiamo che una delle ragioni possa risiedere nel fenomeno della  povertà che in Argentina investe molte persone e non tanto in una necessità terapeutica.

I segnali di una generale condizioni di indigenza salta agli occhi di notte, quando battendo le strade del micro centro di Buenos Aires lo vediamo animarsi di bambini che dormono avvolti in cartoni sulla soglia di qualche negozio per garantirsi un minimo riparo o di piccoli gruppi di ragazzini che affondano le loro piccole mani nude nei sacconi della spazzatura lasciati sui marciapiedi alla chiusura dei negozi per potere separare con destrezza  la plastica dal vetro e dalla carta. Il tutto viene fatto con estreme velocità poichè altri sacchi d’ immondizia, attendono di essere esplorati da quelle minuscole mani prima della concorrenza…Altri bambini.

Sempre più il manicomio ci pare essere non tanto un luogo di cura della follia ma un posto dove, paradossalmente, si consuma il privilegio di avere un tetto sotto il quale ripararsi un letto sul quale riposarsi ed una scodella di cibo assicurata.

Ma torniamo alla radio La Colifata esperienza grazie alla quale le persone si spogliano dell’abito di paziente e le parole matto, loco recuperano la loro  dignità tutta il loro potenziale di trasformazione. Il racconto e la saggezza, l’esperienza di chi continua a vivere in questo territorio inventato dalla psichiatria ed ormai alla deriva come un cargo con i motori in avaria si lascia trasportare dalle correnti senza trovare  un approdo ed in questo vagare  la gente che lo abita riscopre la propria umanità ospite di un  corpo che l’istituzione manicomiale ha tentato invano di imbrigliare tenendone prigioniera la mente. E questo messaggio corre e cavalcando le onde trasmesse dalla Colifata raggiunge la comunità che le sta attorno per essere rilanciato sempre più in là da altre radio locali che, come in un gioco di specchi, piegandosi alla sua forza divengono ponte per irradiare questo segnale di libertà.

Da Imola abbiamo portato con noi le testimonianze di alcune persone che hanno vissuto un esperienza difficile e faticosa sul piano umano. Scegliamo uno tra i tanti contributi quello di Franco (che coincidenza anche Basaglia si chiamava così) con il quale augura agli uomini che abitano  nei manicomi argentini  che venga presto il giorno in cui possano decidere di curarsi liberamente e di prendere in mano  il proprio  destino anche nella sofferenza. Con l’aiuto di un’amica argentina proviamo a tradurlo in spagnolo e  aspettiamo che venga trasmesso .

All’improvviso un nubifragio ci sorprende: a volte anche gli dei sono dalla parte sbagliata

Nel giro di pochi minuti i preziosi strumenti che permettono alla Colifata di fare sentire forte la sua voce trovano riparo in una piccola  casettina posta a poca distanza dal grande mosaico che fa da sfondo ai tecnici del suono.

Insieme agli strumenti al pc al mixer ed ai microfoni anche le persone che avevano dato vita al vivace cerchio della Colifata lo abbandonano con passo veloce e  cercano di evitare la pioggia che rapidamente cresce d’intensità. Anche noi ci diamo alla fuga e mentre corriamo pensiamo al messaggio di Franco con la speranza che la radio riusca a mettergli le ali

Siamo alla ricerca dell’uscita. Le indicazioni, ospitate su vecchi e consunti cartelli o dipinte sulle mura fatiscenti dell’ospedale psichiatrico che da anni non ricevono nè attenzione nè cura dagli uomini che lo abitano, non ci sono d’aiuto. Guardandoci attorno cerchiamo qualcuno che possa orientarci per ritrovare la via dell’uscita.  Rivolgiamo la nostra richiesta d’aiuto alla prima persona che incrociamo: lei ci regala un  sorriso e ci risponde in spagnolo: state cercano la strada per fuggire? E subito dopo accompagna quella frase con un gesto della mano teso ad indicarci la direzione da seguire per “fuggire dal Borda”

All’ uscita incontriamo un gruppo di agenti addetti alla sicurezza, rinchiusi nella loro misera guardiola le cui pareti annerite e orfane di una vernice che da tempo ha deciso di abbandonare quel luogo prima degli uomini, scandiscono il tempo come il viso, abitato da rughe impietose, di un vecchio votato ad una inesorabile agonia .I guardiani, prigionieri anch’essi del loro ruolo, ci guardano con indifferenza e trascorrono il tempo a conversare davanti ad un fornelletto elettrico riscaldando l’acqua per il loro mate.

Buenos Aires è sommersa da una pioggia torrenziale. Come tutti gli abitanti di Buenos Aires che hanno un tetto sulla propria testa, siamo al riparo. La provvidenza ci viene in soccorso e dal nulla come il coniglio bianco di alice nel paese delle meraviglie compare un taxista che cerca di raggiungere rapidamente la propria auto. Viene immediatamente  preso d’assalto da tutti noi.

In quattro ci infiliamo nella vettura. Siamo salvi! Mentre ci dirigiamo verso l’ hotel che ci ospita, attraversiamo una Buenos Aires trasformata in una città lagunare: incredibili masse d’acqua spostate dal movimento delle auto, ormai divenute barche a motore, creano un moto ondoso irriverente che invade i negozi e gli atri dei palazzi inutilmente difesi dai sacchetti di sabbia posti a estremo baluardo di quell’oltraggioso gesto della natura. L’autista ci informa che la pioggia  difficilmente abbandona la sua morsa sulla città e che essa ci sarà compagna per qualche giorno ancora. Il nostro pensiero va ai bambini di strada che dovranno trascorrere le prossime notti riparandosi con cartoni inumiditi e richiedendo di tanto in tanto ai passanti distratti e frettolosi qualche pesos d’elemosina

Ennio

Radio La Coliafata (1)

E' successo tutto grazie ad una serie di incontri fortuiti e...fortunati.

La lunga attesa dell'aereo a Fiumicino ha portato i nostri più audaci e smaliziati  ad aggirarsi fra le persone in attesa, raccontando chi eravamo e chiedendo di firmare la bandiera di Patasarriba che poi avremmo portato e lasciato agli amici argentini.

Fra i malcapitati anche tale Paolo Moiola, giornalista italiano che gira da anni per l'america latina interessandosi di questioni sociali, al quale non  è parso vero di trovarsi in mezzo a un gruppo come il nostro, eterogeneo e non ben identificabile, ma che fin da subito ha destato il suo interesse.

Durante le lunghe 14 ore di volo, fra un sonnellino e un film gli abbiamo raccontato la nostra storia e il motivo di Patasarriba e così ci ha “sposato”, nel senso che la settimana successiva ci ha seguito ovunque potesse aggregarsi e unirsi alle nostre manifestazioni.

Un giorno, precisamente il  mercoledì, si è presentato all'appuntamento con noi per andare al Matadero insieme ad altri 3 italiani, appena arrivati a B A. Uno di loro era uno psichiatra di Torino, Ugo Zamburru, con cui Paolo collabora da tempo, che lavora a Torino ma ha casa a BA. Ovvero: appena può prende ferie, viene a BA e porta avanti varie collaborazioni come volontario. Una fra queste: la Radio La Colifata. Chiacchieriamo a lungo quel mercoledì pomeriggio, di quello che si muove nell'ambito della psichiatria in Italia (fra cui Il treno per Pechino, i gruppi di automutuoaiuto il movimento  di “le Parole Ritrovate”, i gruppi sportivi legati all'esperienza dell'Anpis....) e anche dell'importanza di uscire, di muoversi, di farsi conoscere e andare a cercare cose nuove. Ugo è a BA in questi giorni anche per portare avanti il progetto di aprire un Caffè Basaglia nel popolare e suggestivo quartiere di San Telmo, a pochi passi dalla Plaza de Majo. Nasce da queste chiacchiere del mercoledì pomeriggio l'ipotesi che il sabato Ugo possa farci da apripista presso il più grande manicomio di Buenos Aires, il Josè Borda, per assistere a quello che lui non esita a definire - citando le parole dell'ideatore e coordinatore di Radio La Colifata Alfredo Olivera - un progetto politico, clinico ed estetico, ovvero la trasmissione in diretta della radio che da 12 anni tutti i sabati pomeriggio dalle 15 alle 19 trasmette da dentro il cortile del Borda ed esce nell'etere, anche via internet, per raggiungere tutto il mondo. Un vero ponte di collegamento fra il dentro e il fuori, fatto di parole, musica, auguri, telefonate in diretta, discussioni, racconti personali etc etc.

L'appuntamento quindi è per il sabato alle 15 davanti ai cancelli di questo gigante che è il Borda: spazi grandi e desolati anche all'ingresso, che sembrerebbe più un piazzale di periferia abbandonato a se stesso se non fosse per la sbarra e la guardiola con la polizia fucile alla mano davanti alla quale mettiamo subito via le macchine fotografiche. Siamo una quindicina di persone e Ugo ci presenta come la delegazione italiana in visita a BA per il progetto Patasarriba sulla salute mentale etc etc. I poliziotti ci consigliano di chiedere un permesso, anche per le foto, al medico di guardia che andiamo subito a cercare. Lo troviamo in mezzo al piazzale desolato dell'ingresso, barcollante perchè muj emborracciado, cioè ubriaco fradicio, come spesso capitava anche ai medici dei nostri manicomi un tempo, mi suggerisce Ugo in risposta al mio sguardo sconvolto e interrogativo.  Per il medico di guardia non c'è problema (immagino ne abbia altri...) se entriamo, andiamo alla Colifata, se fotografiamo, filmiamo..insomma tutto a posto. Entriamo allora dentro questo grande mostro del Borda di cui tanto abbiamo sentito parlare (anche nei giorni precedenti durante incontri e scambi con gli argentini) e che ha acceso tante nostre fantasie. La fatiscenza e l'abbandono sono il primo forte segno che ci colpisce, come se fosse man mano venuta meno  l' intenzione a mantenere  viva quella struttura da parte di chi la governa, di chi la vive, di chi ci lavora, perchè ha già da tempo perso il suo senso sociale, il suo significato di cura se mai l'ha avuto, il suo ruolo nella comunità. C'è gente che circola per i corridoi ma sembra quasi che nessuno ci veda. Noi fotografiamo e ci chiediamo alcuni perchè seguendo il passo svelto di Ugo che ci porta verso il cortile. Passiamo a fianco di camerate con le finestre coi vetri rotti e persiane divelte,  dentro ci sono persone sedute che ci guardano assenti, percorriamo corridoi con i muri scrostati o pieni di scritte, alcuni murales o opere artistiche alle pareti sono sommersi da scritte e macchie, in alto sopra alle porte ci sono le classiche insegne che ci ricordano che, nonostante le apparenze,  siamo dentro ad un ospedale in funzione: reparto dr. R. Drinelli psichiatra. Continuamo a seguire Ugo, finalmente entriamo nel cortile del Borda e ci troviamo in mezzo ad una sorta di foresta tropicale di alberi grandissimi e verdi, cespugli incolti e pieni di vigore, ruderi di quelli che dovevano essere vecchi reparti. Solo un muretto che costeggia tutto attorno è integro e pare da poco verniciato: è il muro di recinzione del carcere psichiatrico. Continuiamo il nostro percorso lungo sentieri e marciapiedi sconnessi, ogni tanto incontriamo qualcuno che va e che viene, e finalmente ci avviciniamo al punto dove la Colifata fa la sua trasmissione. Già da lontano sentiamo la musica e alcune voci, la trasmissione è già iniziata e allora ci avviciniamo con cautela. E' un piccolo piazzale, a ridosso di un caseggiato dismesso che funge da ripostiglio, sotto l'ombra degli alberi  un cerchio di sedie con 20 forse 30 persone e al centro la consolle con computer, il mixer e una ragazza che conduce. Ci vedono e ci salutano con molto calore, senza interrompere il loro lavoro,  qualcuna di noi riceve anche un baciamano, ci fanno sedere e entriamo automaticamente e magicamente dentro la trasmissione. Non c'è un confine, questa è la magia, sei lì e quindi sei dentro questo cerchio della comunicazione e del diritto di parola. Come per noi, così è per tutti. Ci sono i professionisti della radio, si riconoscono i facilitatori, i vecchi frequentatori ed animatori ma chiunque passi da quel luogo (immaginiamo un parente in visita o un cittadino che deve fare una visita specialistica, o un qualsiasi internato che cammina delirando) ha diritto di espressione. Dalla consolle continua il gingle di accompagnamento alle presentazioni, un ritmo allegro e incalzante che fa venire davvero voglia di parlare e raccontare, e così anche noi ci presentiamo. Il palinsesto è scritto su una gigantesca lavagna appoggiata al muro e man mano che la trasmissione procede una ragazza cancella il passaggio avvenuto: le presentazioni, un racconto autobiografico a cura di Rosa, l'evento della settimana raccontato da el pacalito, gli auguri di compleanno per uno dei più vecchi internati e frequentatori della radio, la languida Luciernaga curiosa cantata a fil di voce dal mitico Hugo Lopez (uno dei fondatori ed ex internato) e ad un certo punto non può mancare un, pare,atteso da tutti: una Raffaella Carrà a tutto volume che ci fa scatenare in danze furiose.

Non mancano telefonate in diretta, di cui capiamo poco, purtroppo.

Rimaniamo dentro al cerchio magico per qualche ora, ammaliati dall'atmosfera paradossale di libertà che si respira finchè le prime gocce di un potente  acquazzone  non ci riportano alla realtà. Salutiamo con baci abbracci e tanti ringraziamenti e saluti per l'Italia e riprendiamo la via dei tortuosi corridoi per raggiungere l'uscita e cercare un taxi.

venerdì 13 febbraio 2009

Buenos Aires – giovedì 27 Novembre 2008

Un pomeriggio a teatro 

E’ un torrido giovedì pomeriggio di novembre, a Buenos Aires.

Con Virna, Emilia e Claudio decidiamo di andare a teatro presso la sala del A.T.E. (Asociacion de Trabajadores del Estado). C’è in programma la rappresentazione di “El Burgues Gentilhombre” di Moliere, messo in scena dagli ospiti dell’Hospital de Dìa, Hospital Nacional Prof. Alejandro Posadas. Come lo sport e la musica, anche nel sud del mondo, il teatro si rivela nella sua funzione universale: una grande occasione di incontro.

Prendiamo un taxi al volo semplicemente alzando un braccio (come nei film e ci piace tanto) ma restiamo imbottigliati nel traffico nei pressi di Plaza de los Dos Congresos a causa di una manifestazione di piazza contro il governo. Scambiamo quattro chiacchiere con il taxista che è figlio di un calabrese emigrato a Buenos Aires in cerca di fortuna nell’ultimo dopoguerra; parla un argentino italianizzato che si  comprende bene: ci racconta che nei giorni del default del 2001 i parlamentari uscivano di nascosto “come topi” dal parlamento per paura della reazione della gente ridotta quasi alla fame. Il taxi procede a passo di lumaca, il taxista ci chiede cosa facciamo da questa parti, e un coro di voci si leva dal sedile posteriore “per chiudere i manicomi” e io, contralto, “per aprire i manicomi”. Lui ci guarda perplesso, non capisce e noi spieghiamo: chiuderli perchè non esistano più luoghi di emarginazione e di violenza istituzionalizzata; aprirli per far uscire le persone e restituire loro libertà e dignità anche nella cura.

Il taxi è praticamente fermo, siamo in ansia perchè non vogliamo arrivare tardi. Nonostante il caldo opprimente decidiamo di proseguire a piedi, usciamo dalla zona congestionata dal traffico, il teatro è ancora lontano ed è tardi, decidiamo allora di prendere un altro taxi. Finalmente arriviamo!!!

Veniamo accolti con calore, ci consegnano un programma di sala in italiano che apprezziamo con gratitudine e sollievo. Lo spettacolo è appena iniziato. L’impatto scenico è forte, gli attori sono bravi e simpatici, la scenografia è essenziale, i costumi sono evidentemente fatti con pochi mezzi e tanta buona volontà e creatività. Lo sguardo scorre sulle persone, sui gesti, sui movimenti da guitti, apprezzo la cura e la passione per quello che stanno facendo. L’unico punto dolente è che parlano troppo velocemente in argentino e purtroppo mi sfuggono la maggior parte delle battute, per fortuna l’universalità del linguaggio del corpo teatrale facilita la comprensione delle situazioni e alcune di queste suscitano la nostra ilarità.

Dopo lo spettacolo incontro gli attori e la regista mentre insieme sorseggiano il mate nelle loro piccole zucche con le cannuccie di bambù, me lo offrono con generosità. Ho provato una grande tenerezza nel vederli lì, giù dal palco con ancora il trucco di scena sul viso, più timidi e schivi, gli abiti ripiegati nelle sporte, i pezzi di scenografia appoggiati per terra….. Sono curiosa, comincio a fare domande e mi rispondono prima timidamente poi via via sempre più sciolti, ci tengono a raccontare la loro esperienza e modulano la lingua e la gestualità per farsi capire. E ci riescono! Mi dicono che il gruppo nel suo insieme cura ogni parte dello spettacolo: dalla scelta della rappresentazione da mettere in scena alle attribuzioni dei personaggi agli attori, dalla scenografia ai costumi, dalle musiche alle luci. Mi raccontano che si incontrano per tre, spesso quattro, pomeriggi alla settimana nelle due stanze che hanno a disposizione al  Servizio de Psichiatria. L’impegno più grande è quello richiesto dall’interpretazione dei personaggi, come ciascuno di loro entra nella parte e rende il personaggio credibile. Gli attori continuano il gioco comico della commedia: Alejandra mi dice “Io sono Nicolaza! la interpreto facilmente, con mucho gusto!”, Damian fa intendere di avere il fascino di Cleonte e i suoi compagni ridono.

Ana Laisa è l’unica attrice professionista del gruppo, si occupa della regia e dell’organizzazione dello spettacolo. Mi spiega che il gruppo decide anno per anno su quale testo teatrale impostare il laboratorio che si conclude necessariamente con uno spettacolo. Su questo punto siamo più che d’accordo: non c’è teatro senza pubblico! Il lavoro si può definire compiuto solo attraverso le suggestioni e le emozioni suscitate negli spettatori. E’ questo il bello del teatro: alimenta i processi di espressività di sé, di relazione interpersonale e di creazione di cultura sia per chi lo fa che per chi assiste.

Arriva il pulmino il gruppo è impegnato nel caricare gli arredi e gli oggetti di scena per riportarli alla loro sede, ci salutiamo con calorosi baci, abbracci e scambi di mail.

Tra noi, lì, nell’atrio del teatro, si è creato un buon clima, di parole e di pelle, mi sono sentita parte di un gruppo più grande, persone accomunate nell’idea che il teatro è un luogo per sognare, per nutrire le emozioni, per fare scoperte sul senso stesso della vita.  

Monica di Ferrara 

martedì 3 febbraio 2009

PatasArriba pensiero

Un viaggio contro ogni pregiudizio per un mondo senza manicomi.

Questo è lo slogan stampato sulla bandiera che per 10 giorni ci ha accompagnato nel geometrico dedalo stradale di Buenos Aires, tra la gente, nei manicomi, nei ristoranti, alle partite di calcio e nei mercati che abbiamo attraversato in taxi o in bus o più semplicemente a piedi.

Ogni persona incontrata che pensava di condividere il nostro pensiero ha messo una firma sulla bandiera azzurra o su quella gialla o su tutte e due. Posso testimoniare che le firme raccolte sono tante, che è un buon segno.

Ma un tratto di pennarello, per quanto grosso, non cancella il pregiudizio, lo stigma. Sono i muri edificati dentro la testa delle persone, che sono fatti di mattoni e malta molto più resistenti di quelli degli edifici.

Qui in Italia siamo fortunati perchè almeno i muri fisici sono stati picconati e abbattuti. Ci ha pensato Franco Basaglia, promotore della Legge 180/78, che ha permesso in questi 30 anni, ai nostri concittadini che hanno problemi di personalità, di depressione, di mania, di autismo o semplicemente di solitudine di avere la possibilità di guarire o almeno di condurre una vita come tutti gli altri, con un lavoro, una casa, un amore e delle chance. Certo i problemi non mancano ma da quando in qua esiste una cosa perfetta?

In questo viaggio ho avuto il compito di riportare a casa un po' di momenti immortalandoli con la mia nikon. Riportare a casa i ricordi e le emozioni con un linguaggio che mi è più appropriato di quello scritto. Un mezzo come un altro per promuovere e per muovere le persone che di questi argomenti sono a digiuno o che non hanno idea di cosa significhi disagio mentale. Credo che le persone dovrebbero essere informate e magari vivere delle esperienze perchè possano rendersi conto che la realtà non cammina dall'altra parte del marciapiede ma che è lo stesso vestito con   il quale sta camminando.

Ci siamo resi conto che in Argentina la strada è ancora lunga e accidentata, ma le scarpe sono buone e si sta compiendo qualche passo nella direzione, dico io, giusta.

Ogni piccolo passo è un passo importante verso l'inclusione sociale e il riconoscimento dei diritti non solo per chi sta in manicomio, ma per tutte quelle persone che hanno difficoltà ad essere accettate dalla società perchè considerate diverse. 

Per questo il viaggio che abbiamo fatto non è stato solo un viaggio per conoscere, uno scambio culturale o un divertentissimo carnevale, ma nella promozione della salute mentale, un veicolo di valori universali che ci fanno ricordare che non esiste solo il nostro orticello dietro casa o l'avidità o l'egoismo e la paura, ma che siamo tutti nodi di una rete che ci lega. 

L'arrivo all'aeroporto di Buenos Aires, per me che non sono mai uscito dalla vecchia Europa, è stato proprio come l'ingresso nel nuovo continente e mi sono sentito come una gallina spelacchiata che esce dal pollaio per la prima volta, curiosa è un po intimorita ma sostanzialmente emozionata.

Il mio destino per fortuna non è stato quello di fare un buon brodo, ma quello, adesso che sono tornato, di fare felice me stesso e chi mi circondava, portando corpo, anima e le loro funzioni tra tanti altri corpi e anime.

Sono stati 10 giorni molto intensi, insieme agli Special Boys di San Giorgio di Piano e di tutta l'Emilia Romagna, oltre a delegazioni provenienti da tutta Italia.

Ho visto lo stadio del Boca Junior di Maradona e ascoltato il tango in calle Caminito immerso nei colori delle case rivestite di metallo e dipinte con la vernice delle barche.

Ho visitato il manicomio Borda con la sua, o meglio, la loro Radio Colifata, gestita da pazienti ed ex pazienti, ho visto il parco realizzato in memoria dei desaparecidos, ho visto l'hotel Bauen, occupato dai lavoratori, ho visto il manicomio di Torres, dove ci sono già esperienze avanzate di uscita delle persone dalla struttura.

Ho viaggiato sui taxi gialli e neri e ho visto la pioggia torrenziale di Buenos Aires, ho partecipato alla Murga a La Plata dentro a un corteo coloratissimo e scanzonato al ritmo dei tamburi urlando “no ai manicomi” e ho ballato la musica di gruppi locali al barrio Matadero insieme alle donne dell'ospedale psichiatrico per mujeres. Sono stato all'università di Bologna in BsAs a sorbirmi le belle parole dei dottoroni, ho visto la plaza de Majo, centro nativo della città e ho passeggiato per il mercato di San Telmo tra posate d'argento, cipolloni e bottiglie per la soda.

Ho anche baciato una hostess svedese in una delle serate in giro per Buenos Aires a ballare e a chiaccherare con una birra in mano e ho immaginato il terrore della dittatura militare ascoltando le storie dei desaparecidos, delle rappresaglie e dei voli della morte, dalla bocca di due studenti di vent'anni; ho letto il nome di molte persone morte per l'avidità di pochi.

Ho letto Mafalda e l'Eternauta. Ho sentito il fervore nelle parole di chi “lucha”, lotta, per la difesa del suo lavoro e dei suoi diritti fondamentali.

Ho mangiato il lomo di chorizo con fritas, la milanesa con rusa e ho bevuto la Quilmes e lo yerba mate con Dolores, una bella psicologa che vive con 300 euro al mese. Ho conosciuto persone colte e divertenti, giocherellone o maniache del caffe e delle sigarette. Ho conosciuto persone che si spaventano per un topolino e chi beve birra per calmarsi. Ho visto partite di calcio con tifi da stadio e persone con la testa schiacciata, senza arti o con la bava alla bocca e l'ho abbracciata per fargli sentire che anche se non potevo rimanere li siamo stati fortunati a conoscerci.

Ho parlato “castellano” o “argentino” e ancora dieci giorni e diventava la mia seconda lingua.

Ho scoperto un altro pezzo di me stesso e l'importanza delle persone.

Davide 

mercoledì 21 gennaio 2009

Matadero - 26 novembre 2008

Siamo a Matadero, nuova tappa di avvicinamento al grande appuntamento di sabato in Plaza de mayo, giorno in cui si concluderanno le iniziative di Patas Arriba 2oo8.

Matadero è uno dei quartieri più poveri di Buenos Aires.

Arriviamo con i nostri pullman, scendiamo ed il primo approccio con l’ambiente non è dei migliori.

Un intenso e sgradevole odore di cui non riusciamo a scoprire l’origine pervade l’aria che ci circonda.

Tutt’intorno i negozi e le case presentano cancelli di protezione da eventuali furti. Notiamo che il supermercato che si trova nella zona pur essendo aperto al pubblico è protetto dalla presenza di solide inferriate lungo tutto il lato che costeggia il marciapiedi . Una porticina fatta di spesse barre metalliche, addolcite da una verniciatura di colore celeste permette l’entrata e l’uscita delle persone che vanno a comperare i generi alimentari.

Ci dirigiamo verso un parco pubblico al cui centro si erge un grande anfiteatro di cemento le cui gradinate son dipinte di un azzurro cielo. La temperatura è elevata e pensare di trascorrere alcune ore in quel luogo che sembra arroventato dal sole mette a dura prova la nostra voglia di partecipare a questo importante evento.

Un camioncino della protezione civile, poco prima dell’entrata distribuisce acqua a chi la desidera, per evitare problemi di disidratazione. Nell’area attorno all’anfiteatro ci accolgono gruppi di donne, che si proteggono dai raggi di un sole insidioso con dei cappellini di paglia intrecciata, con fazzoletti di cotone appoggiati sul capo e variopinti ombrelli. Sono donne provengono da un ospedale psichiatrico femminile che si trova nei paraggi nel quale vivono oltre 1000 persone. Le donne che incontriamo sono persone con le quali si sta lavorando per creare percorsi di reinserimento sociale nell’ambito del programma denominato PREA (Programma di riabilitazione e dimissione assistita). Tale programma è rivolto sia alle persone ricoverate per lunghi periodi in ospedale psichiatrico, che a promuovere la salute mentale nella comunità.
Man mano che passa il tempo il luogo del nostro raduno comincia a popolarsi di gente che inizia a prendere confidenza con gli spazi. Rimane la sensazione di essere all’interno di una grande padella in cui noi costituiamo gli ingredienti principali per realizzare una raffinata ricetta.
Aspettiamo che qualcuno prepari il soffritto. In fondo al padellone c’e un palco da cui partono voci e suoni discontinui e ripetitivi: un gruppo di musicisti e tecnici del suono si sta dando da fare per mettere a punto gli strumenti musicali, l’impianto audio, i diffusori ed i microfoni. Sembra che anche i suoni, come tutti noi, si sentano ancora stranieri e vaghino alla ricerca di un equilibrio nello spazio attorno a loro, un posto dove poggiarsi. Tutto questo dura finchè il primo gruppo comincia a suonare i coinvolgenti ritmi sud americani. Le note si destano dal loro condizione di straniamento provvisorio e si raccolgono in strutture musicali decise, ferme, risolute. La musica inizia a fluire ordinata e crea come d’incanto il collante necessario affinchè tutto si leghi. La musica chiede semplicemente al corpo di parlare senza parole . E’ la voglia di muovesi, di ballare, di giocare che ha bisogni degli altri per realizzarsi aiuta a superare ogni perplessità o timore. Con la musica non c’è bisogno di presentazioni, non bisogna conoscere lo spagnolo o l’italiano per stabilire un contatto tra la gente. In breve tempo un gruppo di persone anima, con il suo entusiasmo, lo spazio in fondo al catino e ciò agisce sugli altri come un forte richiamo: L’allegria è contagiosa e lo spazio per ballare diviene improvvisamente poco adatto, angusto a contenere l’entusiasmo che intanto si sta generando.

Leggendo il desiderio collettivo di trovare ristoro si materializza la presenza di un idrante che comincia a lanciare un potente flusso d’acqua nel settore della gradinate più esposta al sole cocente. Repentinamente quel luogo, fino a poco tempo prima, accuratamente evitato da qualunque forme di vita, si popola di corpi che richiedonoo attenzione, affinché il getto li colpisca trasformandosi in una energica doccia rinfrescante. In quel contesto, l’acqua che scorre sulle persone e sulle cose sembra moltiplicare l’intensità dell’incontro e dare a quell’elemento liquido una funzione inattesa di purificazione e cambiamento. Tutti siamo più che mai convinti che da domani….ma che dico!!... Fra meno di un’ora i manicomi spariranno dalla faccia della terra grazie a quel rito propiziatorio.

La giornata va avanti.

Tanti sono i gruppi che si alternano sul palco con le loro musiche trascinanti cosi come tanti sono i discorsi, facili prede di vigorosi applausi, che condannano i manicomi e mettono al centro la voglia di aprire in Argentina un nuovo capitolo nel campo della salute mentale. La musica è trascinante e premia la voglia, che c’è ed è forte, di ballare insieme. E’ una musica, quella che pervade l’aria intorno a noi, che unisce e che rende uguali nelle differenze: dove sono le donne alle quali l’Ospedale Psichiatrico voleva negare l’esistenza? la musica, la danza collettività le rende indistinguibili e rompe quell’arcano incantesimo che il manicomio rende possibile che trasforma l’umano in disumano ed i bisogni e i desideri in malattia.

Ah!!. Se il mondo fosse fatto di questo ritmo, di questa musica e di queste danze, un mondo senza manicomi sarebbe possibile.

Un concerto davvero speciale.

Ma cosa rende speciale questo concerto ?

Un concerto al quale stanno partecipando oltre 300 persone, un concerto con tanta bella musica ma sempre un concerto, un concerto come ce ne sono altri in giro.

A renderlo speciale è proprio la presenza di quelle donne esiliate, ultime della terra che il manicomio aveva tentato di rendere invisibili e che finalmente riescono a riscattarsi mostrando nei loro movimenti la forza della libertà che come uno strascico lucente e prezioso ci stordisce.

Che potenza!!
Che energia!!
E noi al confronto semplici comparse.

Il concerto si avvia verso la sua naturale conclusione.

Ad un certo punto quelle donne con cappelli a larghe falde e ombrelli variopinti ci salutano e si avviano verso l’ospedale che ancora le ospita.

Capiamo da quel segnale che, almeno per oggi, il manicomio sarebbe ancora esistito.

Ennio

sabato 17 gennaio 2009

Patas Arriba: riflessioni a freddo

Sono trascorsi 40 giorni  dal viaggio in Argentina.

Appena tornato  preso dall’entusiasmo  mi sono letto “le Irregolari”  un libro che ha per protagoniste le madri  di Plaza de Mayo  e racconta di tanti desaparecidos,  tutti con una loro storia  ma legati allo stesso feroce destino.

La lettura  ha dato  le risposte alle domande che mi ero posto, durante i racconti,  nei luoghi della tragedia argentina.

E mi sono chiesto se sarebbe stato meglio leggere il libro prima della partenza Se avessi fatto così  non sarebbe stata solamente la famosa plaza de mayo  il mio luogo di  culto,  in quanto teatro di protesta silenziosa da parti delle madri, ma anche  Avenida Currientes ,  Avenida Callao, La Plata,  Matadero,….

Vie e città che ho percorso e visitato, ignaro del fatto che furono macchiate dal  sangue di attivisti

politici trucidati barbaramente dalla polizia  nel periodo della dittatura. 

Forse è stato meglio che sia andata così come è andata,  in tal modo non mi sono perso il fascino del nuovo , e il tormento dei perchè . 

Subito, appena arrivato a casa, avrei voluto ringraziare via e-mail i miei compagni di viaggio per la

Benevolenza  riservatami.

E avere aspettato tanto è stato meglio perché ho avuto la prova che i  sentimenti di gratitudine sono

Rimasti intatti.

Una  riconoscenza particolare va  ai nottambuli, assaggiatori  di birra, giocherelloni  che mi hanno benevolmente  arruolato nel loro gruppo.

Un bacio e una carezza ai giovanissimi Mirko e David  che mi hanno   abbracciato,spintonato,sgambettato .

Una volta mentre  si passava in rassegna le foto scattate con la mia digitale con il braccio di Mirko attorno al collo e David appiccicato al mio corpo ho avuto la stessa   sensazione di tenerezza che solo i miei nipotini mi sanno regalare.

Tuccio

giovedì 15 gennaio 2009

Argentina

Cosa siamo riusciti ad imparare
dal soggiorno fatto in Argentina?
Sinceramente la cosa
più importante
che abbiamo potuto recepire
è la capacita di saper aspettare
Con questo voglio dire
che siamo diventati
tutti più pazienti...
Bisogna saper vivere
anche i numerosi attimi di tempo
nei quali
si può solo temporeggiare!
Conquista
il tempo che ti circonda
fino ad amare
tutto ciò che ci accade.
Alcuni sono pazienti dalla nascita,
altri lo sono diventati
con lo scorrere degli anni.
Molti guardano con disprezzo
non capendo
che per vivere occorre
anche saper guardare negli occhi
degli altri
e con un sorriso
saper dare conforto a chi ne ha bisogno!
L’amore viene lasciato
in un cassetto,
ma voler bene agli altri
e apprezzare tutti i difetti,
diventare pazienti,
ci aiuta a volerci più bene,
chiunque siamo...
*
Paolo - tnt

Scusate il ritardo...

Scusate il ritardo……………..ci siamo anche noi: Emilia Chicco
Che dire di questa esperienza;non so…e’difficile trovare le parole per esprimere qualcosa di speciale,di unico,veramente unico.
Non citero’nomi di persone,luoghi,vie,date ecc.ecc.ma daro’voce alle emozioni,alla gioia,all’amore,alla tenerezza,alla passione,alla tristezza,alla nostalgia e cosi’ via.
PRIMO VOLO:PRIMA PAURA PRIMA GRANDE EMOZIONE.

ATTESA IN AEREOPORTO
L’eccitazione era nell’aria,l’euforia animava i nostri corpi,le nostre menti, ci faceva ridere, cantare, ballare,dire stupidaggini insomma ci faceva essere molto chiassosi!!!!!!!!!!Alcuni preferivano rimanere un po’ in disparte partecipando con discrezione quasi intimiditi dalla prorompente vitalita’ che animava la maggior parte del gruppo..Le nostre voci,il nostro parlare si confondeva,si mischiava con tutto quello che ci circondava ed altro ancora(ragazzi,facciamo delle foto? ??!! ehi dove vai? Non ti allontanare!!! Ragazzi stiamo in gruppo altrimenti qualcuno rischi di perdersi. Ho perso il biglietto!!! No eccolo l’ ho trovato ,devo andare al bagno,ho voglia di fumare ) ed altro ancora. Persone ci osservano incuriosite e, subito qualcuno di noi ne approfitta (“scusate:qualcuno di voi sarebbe cosi’ gentile di firmare la bandiera? “ –Di che cosa si tratta? Dove state andando?”
“Il nostro piu’ che un n viaggio e’ un incontro di parole,di sguardi ,di espressioni,di esperienze di vita. Con la legge 180 Basaglia 30 anni fa ha fatto si che in Italia(unico paese al mondo) si potesse realizzare un grande progetto: la chiusura di tutti i manicomi. Noi tutti portiamo le nostre esperienze per: raccontarci,confrontarci ed imparare dal popolo argentino. Si ;anche l’Argentina ha questo progetto in cantiere questo grande desiderio……chiudere i manicomi . Qualcun altro desidera autografare la bandiera?? “ Io non sono d’accordo pero’…….se siete convinti:::::::: fate pure.”

IL VOLO
Breve,interminabile,ronficchiante,turbolento,freddo,caldo,colorato,in bianco e nero ,alba e tramonto giorno e notte in un battito di ciglia.

PATASSARRIBA ECCOCI ARRIVATI ……E L’AVVENTURA COMINCIA
Grandi emozioni ci aspettano, che gioia che felicita’. Bella gente piena di calore passione,forza,poverta’ ma anche tanta dignita’.Ci sono anche i furbacchioni(come direbbe Manu) persone senza fissa dimora (ma quasi mai per scelta).
Grande metropoli: qui tutto e’ diverso! piu’ grande!Il colore di un tramonto il canto degli uccellini, i tronchi degli alberi i rami degli alberi carichi di fiori gialli e lilla di colore intenso.Il vento,il sole,i rumori,i profumi ,gli odori,le puzze.
Tutto ci rende elettrici,vitali ,attivi,euforici. Instancabili nelle camminate negli incontri per scambi culturali ,cercare di capire conoscere assimilare trasmettere imparare quanto piu’possibile per nutrire le nostre anime.
La musica e’coinvolgente,trascinante espressione di forza vita determinazione.Rafforza i legami con le persone.Persone che subiscono lo sguardo degli altri fatto di paura e diffidenza ma, con volonta’ e desiderio di affievolire questi retaggi.
E poi :ancora grandi emozioni con il muro della memoria(desaparecidos)a segno di uno squarcio nell’umanita’ con il pianto instancabile,dignitoso e determinato delle madri alle quali sono stati strappati con crudelta’ i figli(due generazioni). Per chetare un poco i loro pianti basterebbe una giusta conoscenza dei fatti e non un infangamento come il potere dell’ingiustizzia ha fatto.Questo e’ uno dei piu’ grandi crimini commessi contro l’umanita’,un delitto!

VERSO LA FINE DEL PERCORSO
Ormai il nostro viaggio e’quasi finito e ,comunque la voglia di mettersi in gioco e’ sempre tanta.
Le serate ricche di emozioni a volte si mescolano con stanchezza e nervosismo.
Gli input sono stati tanti:in effetti ho ricevuto molto piu’ di quello che ho dato.Questo mi ha arricchita molto…..mi ha aperto gli occhi e la mente ho visto e sentito cose che non avrei immaginato potessero esistere. Siamo contenti,esausti felici ma anche con tanta voglia di tornare a casa per poter trasmettere ad altri tutto cio’ che abbiamo conosciuto imparatoed aprezzato.
Mi sento stanca ma….non appagata.Ho cercato di vivere ogni minuto del mio tempo, ci sono riuscita in parte,potevo fare di meglio.
C’e’ anche voglia di tornare a casa pregustare un buon caffe’italiano.

RITORNO A CASA
La valigia e’ pronta con un po di ARGENTINA dentro.Siamo comunque sempre di corsa e poi……..e’stato molto caldo.
Sono in aereo:mi sento strana non capisco se e’ perche’ e’rimasta una parte di me in Argentina oppure perche’ ho portato con me una parte di Lei. Rifletto un po e poi concludo:entrambe le cose.
Questo e’ stato per me un viaggio indimenticabile per cio’ che e’stato fatto per quello che mi ha dato per quello che ho visto. Ma la piu’ grande e forte emozione che ho vissuto e’ stata quella di :conoscere una terra ricca di passione generosita’coraggio e voglia di cambiare lo stato delle cose. Persone con motivazioni molto forti continuano a vivere mantenendo molto salda la voglia di lottare per se stesse e per altre .Tutto cio’ e’indice di amore generosita’ che non ha eguali.
Di una cosa cosa sicura:d’ora in avanti quando guardero’ una persona negli occhi riusciro’a trasmetterle parte di ricchezza spirituale e umanita’che mi e’ stata donata in Argentina da un popolo meraviglioso.


AFFETTUOSAMENTE EMILIA…………………………………..CHICCO

A quelli che abitano il mio cuore



A quelli che abitano il mio cuore, ricevano oggi li mio abbraccio festeggiando la vita, la lotta e tutto il piacere che si può condividere.


Vi mando due poesie: una è di Eduardo Galeano, giornalista, scrittore, poeta uruguayano, e me l'ha mandata una mia amica argentina.


La seconda è di Alda Merini.


Un abbraccio,


Lucia la viaggiatrice

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Nosotros tenemos la alegría de nuestras alegrías,
y también tenemos la alegría de nuestros dolores
porque no nos interesa la vida indolora
que la civilización del consumo vende en los supermercados,
y estamos orgullosos del precio de tanto dolor
que por tanto amor pagamos.
Tenemos la alegría de nuestros errores,
tropezones que prueban la pasión de andar
y el amor al camino;
y tenemos la alegría de nuestras derrotas
porque la lucha por la justicia y por la belleza
vale la pena también cuando se pierde.
Y sobre todo...
sobre todo tenemos la alegría de nuestras esperanzas
en plena moda del desencanto, cuando el desencanto
se ha convertido en artículo de consumo masivo y universal
nosotros seguimos creyendo
en los asombrosos poderes del abrazo humano.

*
Eduardo Galeano


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Io non ho bisogno di denaro.
Ho bisogno di sentimenti,
di parole, di parole scelte sapientemente,
di fiori detti pensieri,
di rose dette presenze,
di sogni che abitino gli alberi,
di canzoni che facciano danzare le statue,
di stelle che mormorino all'orecchio degli amanti....
Ho bisogno di poesia,
questa magia che brucia la pesantezza delle parole,
che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.

*
Alda Merini

A proposito di Norma, Lorena, Andrea… - venerdì 28 novembre

Giù nell’albergo si palesa quel ‘caso’ che ci fa fare incontri inattesi, scoperte che ci cambiano lentamente o ci trasformano repentinamente.

C’è un gruppo di amici romani che decidono di andare al manicomio femminile di Esteven, non è nel mio programma , ma la cosa mi piace, mi metterà in relazione con una realtà ruvida, carica di ferite “ma perché ritrarsi dinanzi a questa occasione?… che ci faccio qui altrimenti ?”

E’ quasi mezzogiorno quando arriviamo ai cancelli di Esteven (curioso in questa parola ritrovo la famigliarità di un suono, gli Este della mia città!): recinto ben custodito,abitato da circa 1300 donne, le guardie stanno lì a decretare chi può entrare e chi può uscire, stanno a salvaguardia degli onesti cittadini, occhio vigile di questa cittadella protetta.

Le macchie di verde si alternano a edifici di varie dimensioni, non percepisco incuria ma una placida normalità. Una giovane donna, psicologa, ci viene incontro, ci dà il benvenuto, passiamo quindi al centro diurno, somiglia a quello che conosco, a quelli di Ferrara, si svolgono attività di pratica manuale ma anche esperienze artistiche e formative. Son circa trecento le persone che lo frequentano, si lavora sull’alfabetizzazione; i frequentatori vengono preparati ai corsi scuola primaria e secondaria, insomma è un ambiente costruttivo. Capisco che lo sforzo degli operatori somiglia al nostro, anzi loro forse hanno l’entusiasmo che accompagnava sicuramente i nostri colleghi in Italia negli anni ’70, vogliono confrontarsi, la loro passione ad interrogarsi è potente, ci chiedono “che impressione ricevete da tutto ciò?”.

Proseguo attraverso il giardino fino ad un locale vuoto dipinto di verde intenso, da lì, attraverso un lungo corridoio, scorgo un’infilata di camerate e a quel punto il respiro cambia, mi accorgo che lo sguardo vuole scrutare ma impercettibilmente, con cadenza sconnessa, si abbassa a guardare il suolo.

Eppure sono lì in quel momento e devo guardare!
Tanti letti che decostruiscono lo spazio, gli uni addossati agli altri, spezzano quei vuoti che rendono il nostro abitare…umano.

1.
Donne sopra i letti, sotto coperte, a mostrare forme accucciate.
Deprivazione dei luoghi che ci costituiscono in quanto persone.
Una ragazza mi conduce al suo ‘posto’, mi mostra il suo letto, il suo comodino, non capisco se sia una denuncia o voglia di rendermi partecipe di quel covo che l’accoglie.
Entro in un refettorio dove un’infermiera sta con un piccolo gruppo di ricoverati, è in quel posto da 27 anni, sorride, sembra che il lavoro non le pesi, sta invecchiando con quelle donne, penso che deve essere stata una vita dura e per questo la serenità di quel volto mi turba.
Torno nel grande salone verde e qui riconosco le figure tonde di Norma e di Lorena. Erano loro che ballavano con me qualche giorno prima alla festa del matadero. Là abbiamo cantato, abbiamo ballato, ci siamo incontrate nel tempo libero della festa…mi incupisco un po’. Sento la profonda differenza con l’attuale fluire del tempo.
Mi mostrano con orgoglio la spilletta di patas arriba, sigillo di riconoscimento.
Mi viene in mente alla festa la bella voce di Lorena, quel suo sorriso devastato, il viso rotondo, gli scuri capelli neri…mi accorgo ora che porta il pannolone.
Ma come…alla festa era continente!
E Norma, tracagnotta e fracassona.
Lorena mi prende per mano e mi conduce, sicura, nella camera dove dorme – si avverte bene che non vede l’ora di mostrarmi qualcosa che le sta veramente a cuore – tra pochi armadi e tanti letti, c’è il suo e lì a cavallo della testata indica la sua camiseta, una camicia da notte grigia, sporca, butterata di buchi: la stoffa che l’accompagna durante la notte, che avvolge i suoi sogni.
Attraversando quegli spazi vedo i bagni, le docce primitive e osservo che i gabinetti sono chiusi, chiedo e vengo informata che durante il giorno vengono tenuti serrati a chiave e capisco il perché delle persone accucciate viste nel parco, dei sessi scoperti lungo i percorsi.
Segni di istituzionalizzazione, regole che accomunano gli universi concentrazionari.

2.
Passando nei corridoi mi compare e subito scompare una giovane donna che per attirare la nostra attenzione, corre da una stanza all’altra emettendo suoni di richiamo in un movimento divertito e sempre frontale, cerca il nostro sguardo.
Non mi sono accorta che la macchina fotografica che porto al collo diviene il centro d’attenzione di una donna robusta che abbraccia un grande bambolotto. Non mi lascia scelta: vuole una fotografia per sé e per il suo compagno. Chissà come si chiama quel finto bambino che non molla. Sembra comunque una madonna gioiosa che vuole un ritratto per lei col suo piccolo.
E la privacy? mi chiedo. Non voglio fotografare lei ma solo la sua bambola. Poi l’operatrice che le sta accanto mi fa capire di lasciar perdere questa storia della privacy, questo rigido protocollo che, usato ormai in modo stolto, corrode i rapporti tra le persone. Mostro il risultato dello scatto alla donna che esplode in una fragorosa e trascinante risata di stupore – eppure avrà visto altre foto! – che vuole richiamare l’attenzione di chi le sta intorno. Bisognerà proprio che, una volta a casa, le mandi una stampa.
Mi chiamano, è ora di andare, saluto Norma e Lorena, ci diamo appuntamento a Plaza de Majo sabato, a far festa, per stare insieme e dire chi siamo, ciò che pensiamo, ciò che vogliamo: sarà un’altra festa di patas arriba.
Sto per uscire quando sento una voce, sta chiamando proprio me: Daniela, Daniela…
Mi giro, è una vera epifania! La frequenza del respiro cambia di nuovo.
Quando siamo fuori dal nostro Paese, sentirci riconosciuti all’improvviso ci getta in un profondo stato di sgomento e di felicità, se questo poi accade in un manicomio, l’effetto si amplifica.
E’ Andrea, anche lei l’ho conosciuta alla festa, qualche giorno prima, viene verso di me e dice a chi le sta vicino e dice indicandomi: “lei è disponibile a metter la firma per farmi uscire di qui”.
Ora, allorché una persona cercasse negli altri una definizione di se stesso, cosa potrebbe desiderare di meglio? Nella semplicità di quella frase venivo descritta per la forza di una volontà, di un gesto. Mi commuove l’essere riconosciuta, l’esser vissuta come una che si batterà per la sua uscita.

3.
Qui , in questo momento , non c’è retorica, non c’è ideologia, c’è un groppo alla gola difficile da controllare.
Andrea mi ha segnato, quando l’ho incontrata alla festa mi ha insegnato a ballare. Mi ha chiesto se son sposata, se ho figli…era l’incontro tra due donne che volevano sapere l’una dell’altra.
Io le ho chiesto se conosceva le ragioni per cui si trovava in manicomio.
Con tranquillità mi ha spiegato che litigava con suo padre, che l’aveva presa una depressione post-partum, che aveva tre figli…ho commentato che era stata più generosa di me che ne ho uno solo…abbiamo riso.
Belli i suoi 43 anni , portati bene, con i capelli ben legati, ironica, si augurava di entrare presto nel progetto PREA con la possibilità di uscire dal manicomio.
Anche lei mi saluta e dice “Ci vediamo a Plaza de Majo”
“Sì, ti cerco!” le rispondo.
Mi avvio finalmente all’uscita ma prima di salire sul taxi mi giro. Vedo una ragazza seduta su una panchina con un’altra persona, piange e saluta. Non capisco: si rivolge verso di noi che usciamo? Ce l’ha con la persona a fianco?
Che fatica comprendere!
Sabato, alla Plaza de Majo piove, non ci sarà la festa. Peccato!
Se esistere significa uscire da se stessi, io lì a Esteven ho sentito che esistevo insieme ad altre donne che non erano libere e che la mia libertà può passare solo attraverso la loro. Anche se sabato è piovuto io comunque “metterò la mia firma per Andrea, Lorena, Norma…” e ci sarà tempo per tornare a far festa alla Plaza de Majo.

Daniela di Ferrara