mercoledì 21 gennaio 2009

Matadero - 26 novembre 2008

Siamo a Matadero, nuova tappa di avvicinamento al grande appuntamento di sabato in Plaza de mayo, giorno in cui si concluderanno le iniziative di Patas Arriba 2oo8.

Matadero è uno dei quartieri più poveri di Buenos Aires.

Arriviamo con i nostri pullman, scendiamo ed il primo approccio con l’ambiente non è dei migliori.

Un intenso e sgradevole odore di cui non riusciamo a scoprire l’origine pervade l’aria che ci circonda.

Tutt’intorno i negozi e le case presentano cancelli di protezione da eventuali furti. Notiamo che il supermercato che si trova nella zona pur essendo aperto al pubblico è protetto dalla presenza di solide inferriate lungo tutto il lato che costeggia il marciapiedi . Una porticina fatta di spesse barre metalliche, addolcite da una verniciatura di colore celeste permette l’entrata e l’uscita delle persone che vanno a comperare i generi alimentari.

Ci dirigiamo verso un parco pubblico al cui centro si erge un grande anfiteatro di cemento le cui gradinate son dipinte di un azzurro cielo. La temperatura è elevata e pensare di trascorrere alcune ore in quel luogo che sembra arroventato dal sole mette a dura prova la nostra voglia di partecipare a questo importante evento.

Un camioncino della protezione civile, poco prima dell’entrata distribuisce acqua a chi la desidera, per evitare problemi di disidratazione. Nell’area attorno all’anfiteatro ci accolgono gruppi di donne, che si proteggono dai raggi di un sole insidioso con dei cappellini di paglia intrecciata, con fazzoletti di cotone appoggiati sul capo e variopinti ombrelli. Sono donne provengono da un ospedale psichiatrico femminile che si trova nei paraggi nel quale vivono oltre 1000 persone. Le donne che incontriamo sono persone con le quali si sta lavorando per creare percorsi di reinserimento sociale nell’ambito del programma denominato PREA (Programma di riabilitazione e dimissione assistita). Tale programma è rivolto sia alle persone ricoverate per lunghi periodi in ospedale psichiatrico, che a promuovere la salute mentale nella comunità.
Man mano che passa il tempo il luogo del nostro raduno comincia a popolarsi di gente che inizia a prendere confidenza con gli spazi. Rimane la sensazione di essere all’interno di una grande padella in cui noi costituiamo gli ingredienti principali per realizzare una raffinata ricetta.
Aspettiamo che qualcuno prepari il soffritto. In fondo al padellone c’e un palco da cui partono voci e suoni discontinui e ripetitivi: un gruppo di musicisti e tecnici del suono si sta dando da fare per mettere a punto gli strumenti musicali, l’impianto audio, i diffusori ed i microfoni. Sembra che anche i suoni, come tutti noi, si sentano ancora stranieri e vaghino alla ricerca di un equilibrio nello spazio attorno a loro, un posto dove poggiarsi. Tutto questo dura finchè il primo gruppo comincia a suonare i coinvolgenti ritmi sud americani. Le note si destano dal loro condizione di straniamento provvisorio e si raccolgono in strutture musicali decise, ferme, risolute. La musica inizia a fluire ordinata e crea come d’incanto il collante necessario affinchè tutto si leghi. La musica chiede semplicemente al corpo di parlare senza parole . E’ la voglia di muovesi, di ballare, di giocare che ha bisogni degli altri per realizzarsi aiuta a superare ogni perplessità o timore. Con la musica non c’è bisogno di presentazioni, non bisogna conoscere lo spagnolo o l’italiano per stabilire un contatto tra la gente. In breve tempo un gruppo di persone anima, con il suo entusiasmo, lo spazio in fondo al catino e ciò agisce sugli altri come un forte richiamo: L’allegria è contagiosa e lo spazio per ballare diviene improvvisamente poco adatto, angusto a contenere l’entusiasmo che intanto si sta generando.

Leggendo il desiderio collettivo di trovare ristoro si materializza la presenza di un idrante che comincia a lanciare un potente flusso d’acqua nel settore della gradinate più esposta al sole cocente. Repentinamente quel luogo, fino a poco tempo prima, accuratamente evitato da qualunque forme di vita, si popola di corpi che richiedonoo attenzione, affinché il getto li colpisca trasformandosi in una energica doccia rinfrescante. In quel contesto, l’acqua che scorre sulle persone e sulle cose sembra moltiplicare l’intensità dell’incontro e dare a quell’elemento liquido una funzione inattesa di purificazione e cambiamento. Tutti siamo più che mai convinti che da domani….ma che dico!!... Fra meno di un’ora i manicomi spariranno dalla faccia della terra grazie a quel rito propiziatorio.

La giornata va avanti.

Tanti sono i gruppi che si alternano sul palco con le loro musiche trascinanti cosi come tanti sono i discorsi, facili prede di vigorosi applausi, che condannano i manicomi e mettono al centro la voglia di aprire in Argentina un nuovo capitolo nel campo della salute mentale. La musica è trascinante e premia la voglia, che c’è ed è forte, di ballare insieme. E’ una musica, quella che pervade l’aria intorno a noi, che unisce e che rende uguali nelle differenze: dove sono le donne alle quali l’Ospedale Psichiatrico voleva negare l’esistenza? la musica, la danza collettività le rende indistinguibili e rompe quell’arcano incantesimo che il manicomio rende possibile che trasforma l’umano in disumano ed i bisogni e i desideri in malattia.

Ah!!. Se il mondo fosse fatto di questo ritmo, di questa musica e di queste danze, un mondo senza manicomi sarebbe possibile.

Un concerto davvero speciale.

Ma cosa rende speciale questo concerto ?

Un concerto al quale stanno partecipando oltre 300 persone, un concerto con tanta bella musica ma sempre un concerto, un concerto come ce ne sono altri in giro.

A renderlo speciale è proprio la presenza di quelle donne esiliate, ultime della terra che il manicomio aveva tentato di rendere invisibili e che finalmente riescono a riscattarsi mostrando nei loro movimenti la forza della libertà che come uno strascico lucente e prezioso ci stordisce.

Che potenza!!
Che energia!!
E noi al confronto semplici comparse.

Il concerto si avvia verso la sua naturale conclusione.

Ad un certo punto quelle donne con cappelli a larghe falde e ombrelli variopinti ci salutano e si avviano verso l’ospedale che ancora le ospita.

Capiamo da quel segnale che, almeno per oggi, il manicomio sarebbe ancora esistito.

Ennio

sabato 17 gennaio 2009

Patas Arriba: riflessioni a freddo

Sono trascorsi 40 giorni  dal viaggio in Argentina.

Appena tornato  preso dall’entusiasmo  mi sono letto “le Irregolari”  un libro che ha per protagoniste le madri  di Plaza de Mayo  e racconta di tanti desaparecidos,  tutti con una loro storia  ma legati allo stesso feroce destino.

La lettura  ha dato  le risposte alle domande che mi ero posto, durante i racconti,  nei luoghi della tragedia argentina.

E mi sono chiesto se sarebbe stato meglio leggere il libro prima della partenza Se avessi fatto così  non sarebbe stata solamente la famosa plaza de mayo  il mio luogo di  culto,  in quanto teatro di protesta silenziosa da parti delle madri, ma anche  Avenida Currientes ,  Avenida Callao, La Plata,  Matadero,….

Vie e città che ho percorso e visitato, ignaro del fatto che furono macchiate dal  sangue di attivisti

politici trucidati barbaramente dalla polizia  nel periodo della dittatura. 

Forse è stato meglio che sia andata così come è andata,  in tal modo non mi sono perso il fascino del nuovo , e il tormento dei perchè . 

Subito, appena arrivato a casa, avrei voluto ringraziare via e-mail i miei compagni di viaggio per la

Benevolenza  riservatami.

E avere aspettato tanto è stato meglio perché ho avuto la prova che i  sentimenti di gratitudine sono

Rimasti intatti.

Una  riconoscenza particolare va  ai nottambuli, assaggiatori  di birra, giocherelloni  che mi hanno benevolmente  arruolato nel loro gruppo.

Un bacio e una carezza ai giovanissimi Mirko e David  che mi hanno   abbracciato,spintonato,sgambettato .

Una volta mentre  si passava in rassegna le foto scattate con la mia digitale con il braccio di Mirko attorno al collo e David appiccicato al mio corpo ho avuto la stessa   sensazione di tenerezza che solo i miei nipotini mi sanno regalare.

Tuccio

giovedì 15 gennaio 2009

Argentina

Cosa siamo riusciti ad imparare
dal soggiorno fatto in Argentina?
Sinceramente la cosa
più importante
che abbiamo potuto recepire
è la capacita di saper aspettare
Con questo voglio dire
che siamo diventati
tutti più pazienti...
Bisogna saper vivere
anche i numerosi attimi di tempo
nei quali
si può solo temporeggiare!
Conquista
il tempo che ti circonda
fino ad amare
tutto ciò che ci accade.
Alcuni sono pazienti dalla nascita,
altri lo sono diventati
con lo scorrere degli anni.
Molti guardano con disprezzo
non capendo
che per vivere occorre
anche saper guardare negli occhi
degli altri
e con un sorriso
saper dare conforto a chi ne ha bisogno!
L’amore viene lasciato
in un cassetto,
ma voler bene agli altri
e apprezzare tutti i difetti,
diventare pazienti,
ci aiuta a volerci più bene,
chiunque siamo...
*
Paolo - tnt

Scusate il ritardo...

Scusate il ritardo……………..ci siamo anche noi: Emilia Chicco
Che dire di questa esperienza;non so…e’difficile trovare le parole per esprimere qualcosa di speciale,di unico,veramente unico.
Non citero’nomi di persone,luoghi,vie,date ecc.ecc.ma daro’voce alle emozioni,alla gioia,all’amore,alla tenerezza,alla passione,alla tristezza,alla nostalgia e cosi’ via.
PRIMO VOLO:PRIMA PAURA PRIMA GRANDE EMOZIONE.

ATTESA IN AEREOPORTO
L’eccitazione era nell’aria,l’euforia animava i nostri corpi,le nostre menti, ci faceva ridere, cantare, ballare,dire stupidaggini insomma ci faceva essere molto chiassosi!!!!!!!!!!Alcuni preferivano rimanere un po’ in disparte partecipando con discrezione quasi intimiditi dalla prorompente vitalita’ che animava la maggior parte del gruppo..Le nostre voci,il nostro parlare si confondeva,si mischiava con tutto quello che ci circondava ed altro ancora(ragazzi,facciamo delle foto? ??!! ehi dove vai? Non ti allontanare!!! Ragazzi stiamo in gruppo altrimenti qualcuno rischi di perdersi. Ho perso il biglietto!!! No eccolo l’ ho trovato ,devo andare al bagno,ho voglia di fumare ) ed altro ancora. Persone ci osservano incuriosite e, subito qualcuno di noi ne approfitta (“scusate:qualcuno di voi sarebbe cosi’ gentile di firmare la bandiera? “ –Di che cosa si tratta? Dove state andando?”
“Il nostro piu’ che un n viaggio e’ un incontro di parole,di sguardi ,di espressioni,di esperienze di vita. Con la legge 180 Basaglia 30 anni fa ha fatto si che in Italia(unico paese al mondo) si potesse realizzare un grande progetto: la chiusura di tutti i manicomi. Noi tutti portiamo le nostre esperienze per: raccontarci,confrontarci ed imparare dal popolo argentino. Si ;anche l’Argentina ha questo progetto in cantiere questo grande desiderio……chiudere i manicomi . Qualcun altro desidera autografare la bandiera?? “ Io non sono d’accordo pero’…….se siete convinti:::::::: fate pure.”

IL VOLO
Breve,interminabile,ronficchiante,turbolento,freddo,caldo,colorato,in bianco e nero ,alba e tramonto giorno e notte in un battito di ciglia.

PATASSARRIBA ECCOCI ARRIVATI ……E L’AVVENTURA COMINCIA
Grandi emozioni ci aspettano, che gioia che felicita’. Bella gente piena di calore passione,forza,poverta’ ma anche tanta dignita’.Ci sono anche i furbacchioni(come direbbe Manu) persone senza fissa dimora (ma quasi mai per scelta).
Grande metropoli: qui tutto e’ diverso! piu’ grande!Il colore di un tramonto il canto degli uccellini, i tronchi degli alberi i rami degli alberi carichi di fiori gialli e lilla di colore intenso.Il vento,il sole,i rumori,i profumi ,gli odori,le puzze.
Tutto ci rende elettrici,vitali ,attivi,euforici. Instancabili nelle camminate negli incontri per scambi culturali ,cercare di capire conoscere assimilare trasmettere imparare quanto piu’possibile per nutrire le nostre anime.
La musica e’coinvolgente,trascinante espressione di forza vita determinazione.Rafforza i legami con le persone.Persone che subiscono lo sguardo degli altri fatto di paura e diffidenza ma, con volonta’ e desiderio di affievolire questi retaggi.
E poi :ancora grandi emozioni con il muro della memoria(desaparecidos)a segno di uno squarcio nell’umanita’ con il pianto instancabile,dignitoso e determinato delle madri alle quali sono stati strappati con crudelta’ i figli(due generazioni). Per chetare un poco i loro pianti basterebbe una giusta conoscenza dei fatti e non un infangamento come il potere dell’ingiustizzia ha fatto.Questo e’ uno dei piu’ grandi crimini commessi contro l’umanita’,un delitto!

VERSO LA FINE DEL PERCORSO
Ormai il nostro viaggio e’quasi finito e ,comunque la voglia di mettersi in gioco e’ sempre tanta.
Le serate ricche di emozioni a volte si mescolano con stanchezza e nervosismo.
Gli input sono stati tanti:in effetti ho ricevuto molto piu’ di quello che ho dato.Questo mi ha arricchita molto…..mi ha aperto gli occhi e la mente ho visto e sentito cose che non avrei immaginato potessero esistere. Siamo contenti,esausti felici ma anche con tanta voglia di tornare a casa per poter trasmettere ad altri tutto cio’ che abbiamo conosciuto imparatoed aprezzato.
Mi sento stanca ma….non appagata.Ho cercato di vivere ogni minuto del mio tempo, ci sono riuscita in parte,potevo fare di meglio.
C’e’ anche voglia di tornare a casa pregustare un buon caffe’italiano.

RITORNO A CASA
La valigia e’ pronta con un po di ARGENTINA dentro.Siamo comunque sempre di corsa e poi……..e’stato molto caldo.
Sono in aereo:mi sento strana non capisco se e’ perche’ e’rimasta una parte di me in Argentina oppure perche’ ho portato con me una parte di Lei. Rifletto un po e poi concludo:entrambe le cose.
Questo e’ stato per me un viaggio indimenticabile per cio’ che e’stato fatto per quello che mi ha dato per quello che ho visto. Ma la piu’ grande e forte emozione che ho vissuto e’ stata quella di :conoscere una terra ricca di passione generosita’coraggio e voglia di cambiare lo stato delle cose. Persone con motivazioni molto forti continuano a vivere mantenendo molto salda la voglia di lottare per se stesse e per altre .Tutto cio’ e’indice di amore generosita’ che non ha eguali.
Di una cosa cosa sicura:d’ora in avanti quando guardero’ una persona negli occhi riusciro’a trasmetterle parte di ricchezza spirituale e umanita’che mi e’ stata donata in Argentina da un popolo meraviglioso.


AFFETTUOSAMENTE EMILIA…………………………………..CHICCO

A quelli che abitano il mio cuore



A quelli che abitano il mio cuore, ricevano oggi li mio abbraccio festeggiando la vita, la lotta e tutto il piacere che si può condividere.


Vi mando due poesie: una è di Eduardo Galeano, giornalista, scrittore, poeta uruguayano, e me l'ha mandata una mia amica argentina.


La seconda è di Alda Merini.


Un abbraccio,


Lucia la viaggiatrice

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Nosotros tenemos la alegría de nuestras alegrías,
y también tenemos la alegría de nuestros dolores
porque no nos interesa la vida indolora
que la civilización del consumo vende en los supermercados,
y estamos orgullosos del precio de tanto dolor
que por tanto amor pagamos.
Tenemos la alegría de nuestros errores,
tropezones que prueban la pasión de andar
y el amor al camino;
y tenemos la alegría de nuestras derrotas
porque la lucha por la justicia y por la belleza
vale la pena también cuando se pierde.
Y sobre todo...
sobre todo tenemos la alegría de nuestras esperanzas
en plena moda del desencanto, cuando el desencanto
se ha convertido en artículo de consumo masivo y universal
nosotros seguimos creyendo
en los asombrosos poderes del abrazo humano.

*
Eduardo Galeano


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Io non ho bisogno di denaro.
Ho bisogno di sentimenti,
di parole, di parole scelte sapientemente,
di fiori detti pensieri,
di rose dette presenze,
di sogni che abitino gli alberi,
di canzoni che facciano danzare le statue,
di stelle che mormorino all'orecchio degli amanti....
Ho bisogno di poesia,
questa magia che brucia la pesantezza delle parole,
che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.

*
Alda Merini

A proposito di Norma, Lorena, Andrea… - venerdì 28 novembre

Giù nell’albergo si palesa quel ‘caso’ che ci fa fare incontri inattesi, scoperte che ci cambiano lentamente o ci trasformano repentinamente.

C’è un gruppo di amici romani che decidono di andare al manicomio femminile di Esteven, non è nel mio programma , ma la cosa mi piace, mi metterà in relazione con una realtà ruvida, carica di ferite “ma perché ritrarsi dinanzi a questa occasione?… che ci faccio qui altrimenti ?”

E’ quasi mezzogiorno quando arriviamo ai cancelli di Esteven (curioso in questa parola ritrovo la famigliarità di un suono, gli Este della mia città!): recinto ben custodito,abitato da circa 1300 donne, le guardie stanno lì a decretare chi può entrare e chi può uscire, stanno a salvaguardia degli onesti cittadini, occhio vigile di questa cittadella protetta.

Le macchie di verde si alternano a edifici di varie dimensioni, non percepisco incuria ma una placida normalità. Una giovane donna, psicologa, ci viene incontro, ci dà il benvenuto, passiamo quindi al centro diurno, somiglia a quello che conosco, a quelli di Ferrara, si svolgono attività di pratica manuale ma anche esperienze artistiche e formative. Son circa trecento le persone che lo frequentano, si lavora sull’alfabetizzazione; i frequentatori vengono preparati ai corsi scuola primaria e secondaria, insomma è un ambiente costruttivo. Capisco che lo sforzo degli operatori somiglia al nostro, anzi loro forse hanno l’entusiasmo che accompagnava sicuramente i nostri colleghi in Italia negli anni ’70, vogliono confrontarsi, la loro passione ad interrogarsi è potente, ci chiedono “che impressione ricevete da tutto ciò?”.

Proseguo attraverso il giardino fino ad un locale vuoto dipinto di verde intenso, da lì, attraverso un lungo corridoio, scorgo un’infilata di camerate e a quel punto il respiro cambia, mi accorgo che lo sguardo vuole scrutare ma impercettibilmente, con cadenza sconnessa, si abbassa a guardare il suolo.

Eppure sono lì in quel momento e devo guardare!
Tanti letti che decostruiscono lo spazio, gli uni addossati agli altri, spezzano quei vuoti che rendono il nostro abitare…umano.

1.
Donne sopra i letti, sotto coperte, a mostrare forme accucciate.
Deprivazione dei luoghi che ci costituiscono in quanto persone.
Una ragazza mi conduce al suo ‘posto’, mi mostra il suo letto, il suo comodino, non capisco se sia una denuncia o voglia di rendermi partecipe di quel covo che l’accoglie.
Entro in un refettorio dove un’infermiera sta con un piccolo gruppo di ricoverati, è in quel posto da 27 anni, sorride, sembra che il lavoro non le pesi, sta invecchiando con quelle donne, penso che deve essere stata una vita dura e per questo la serenità di quel volto mi turba.
Torno nel grande salone verde e qui riconosco le figure tonde di Norma e di Lorena. Erano loro che ballavano con me qualche giorno prima alla festa del matadero. Là abbiamo cantato, abbiamo ballato, ci siamo incontrate nel tempo libero della festa…mi incupisco un po’. Sento la profonda differenza con l’attuale fluire del tempo.
Mi mostrano con orgoglio la spilletta di patas arriba, sigillo di riconoscimento.
Mi viene in mente alla festa la bella voce di Lorena, quel suo sorriso devastato, il viso rotondo, gli scuri capelli neri…mi accorgo ora che porta il pannolone.
Ma come…alla festa era continente!
E Norma, tracagnotta e fracassona.
Lorena mi prende per mano e mi conduce, sicura, nella camera dove dorme – si avverte bene che non vede l’ora di mostrarmi qualcosa che le sta veramente a cuore – tra pochi armadi e tanti letti, c’è il suo e lì a cavallo della testata indica la sua camiseta, una camicia da notte grigia, sporca, butterata di buchi: la stoffa che l’accompagna durante la notte, che avvolge i suoi sogni.
Attraversando quegli spazi vedo i bagni, le docce primitive e osservo che i gabinetti sono chiusi, chiedo e vengo informata che durante il giorno vengono tenuti serrati a chiave e capisco il perché delle persone accucciate viste nel parco, dei sessi scoperti lungo i percorsi.
Segni di istituzionalizzazione, regole che accomunano gli universi concentrazionari.

2.
Passando nei corridoi mi compare e subito scompare una giovane donna che per attirare la nostra attenzione, corre da una stanza all’altra emettendo suoni di richiamo in un movimento divertito e sempre frontale, cerca il nostro sguardo.
Non mi sono accorta che la macchina fotografica che porto al collo diviene il centro d’attenzione di una donna robusta che abbraccia un grande bambolotto. Non mi lascia scelta: vuole una fotografia per sé e per il suo compagno. Chissà come si chiama quel finto bambino che non molla. Sembra comunque una madonna gioiosa che vuole un ritratto per lei col suo piccolo.
E la privacy? mi chiedo. Non voglio fotografare lei ma solo la sua bambola. Poi l’operatrice che le sta accanto mi fa capire di lasciar perdere questa storia della privacy, questo rigido protocollo che, usato ormai in modo stolto, corrode i rapporti tra le persone. Mostro il risultato dello scatto alla donna che esplode in una fragorosa e trascinante risata di stupore – eppure avrà visto altre foto! – che vuole richiamare l’attenzione di chi le sta intorno. Bisognerà proprio che, una volta a casa, le mandi una stampa.
Mi chiamano, è ora di andare, saluto Norma e Lorena, ci diamo appuntamento a Plaza de Majo sabato, a far festa, per stare insieme e dire chi siamo, ciò che pensiamo, ciò che vogliamo: sarà un’altra festa di patas arriba.
Sto per uscire quando sento una voce, sta chiamando proprio me: Daniela, Daniela…
Mi giro, è una vera epifania! La frequenza del respiro cambia di nuovo.
Quando siamo fuori dal nostro Paese, sentirci riconosciuti all’improvviso ci getta in un profondo stato di sgomento e di felicità, se questo poi accade in un manicomio, l’effetto si amplifica.
E’ Andrea, anche lei l’ho conosciuta alla festa, qualche giorno prima, viene verso di me e dice a chi le sta vicino e dice indicandomi: “lei è disponibile a metter la firma per farmi uscire di qui”.
Ora, allorché una persona cercasse negli altri una definizione di se stesso, cosa potrebbe desiderare di meglio? Nella semplicità di quella frase venivo descritta per la forza di una volontà, di un gesto. Mi commuove l’essere riconosciuta, l’esser vissuta come una che si batterà per la sua uscita.

3.
Qui , in questo momento , non c’è retorica, non c’è ideologia, c’è un groppo alla gola difficile da controllare.
Andrea mi ha segnato, quando l’ho incontrata alla festa mi ha insegnato a ballare. Mi ha chiesto se son sposata, se ho figli…era l’incontro tra due donne che volevano sapere l’una dell’altra.
Io le ho chiesto se conosceva le ragioni per cui si trovava in manicomio.
Con tranquillità mi ha spiegato che litigava con suo padre, che l’aveva presa una depressione post-partum, che aveva tre figli…ho commentato che era stata più generosa di me che ne ho uno solo…abbiamo riso.
Belli i suoi 43 anni , portati bene, con i capelli ben legati, ironica, si augurava di entrare presto nel progetto PREA con la possibilità di uscire dal manicomio.
Anche lei mi saluta e dice “Ci vediamo a Plaza de Majo”
“Sì, ti cerco!” le rispondo.
Mi avvio finalmente all’uscita ma prima di salire sul taxi mi giro. Vedo una ragazza seduta su una panchina con un’altra persona, piange e saluta. Non capisco: si rivolge verso di noi che usciamo? Ce l’ha con la persona a fianco?
Che fatica comprendere!
Sabato, alla Plaza de Majo piove, non ci sarà la festa. Peccato!
Se esistere significa uscire da se stessi, io lì a Esteven ho sentito che esistevo insieme ad altre donne che non erano libere e che la mia libertà può passare solo attraverso la loro. Anche se sabato è piovuto io comunque “metterò la mia firma per Andrea, Lorena, Norma…” e ci sarà tempo per tornare a far festa alla Plaza de Majo.

Daniela di Ferrara

UNA GIORNATA DA MANICOMIO - giovedì 27 novembre

Sveglia alle ore 6.30, veloce colazione e via di corsa all’appuntamento con la delegazione di atleti dell’ANPIS nazionale, invitata a partecipare a un evento sportivo all’interno dell’Ospedale Psichiatrico Colonia Montes de la Oca. Una partita di calcio con la squadra che si è costituita da pochi anni nella struttura psichiatrica. Ne fanno parte persone ricoverate all’interno dei padiglioni, infermieri e operatori della Colonia. Sono guidati da un insegnante di educazione fisica. Gli allenamenti della squadra si tengono tre volte alla settimana: lunedì, mercoledì e venerdì. L’allenatore della squadra è una delle tante figure non sanitarie che incontreremo nei circuiti della nuova psichiatria argentina.

La Colonia di Montes de la Oca ha compiuto il suo centesimo compleanno proprio qualche giorno fa. Si trova a circa 70 chilometri da Buenos Aires, isolata in mezzo alla campagna a circa un chilometro dal più vicino centro abitato.

Si parte, siamo circa una trentina e ci spostiamo con un piccolo pulmann e tre auto. Portiamo un messaggio speciale: sostenere il lavoro di superamento e chiusura degli Ospedali Psichiatrici, solidarizzare con le persone, donne e uomini ancora ricoverate e affermare la necessità di creare nuove opportunità.

Insieme a noi si muove anche una troupe di cineasti che dovrà documentare l’incontro di calcio.
Alle 10 siamo ancora in viaggio. L’autista sembra aver perso la strada. A un certo punto i dubbi svaniscono: l’ha proprio persa.

Percorriamo strade improbabili alla ricerca di qualcuno che ci dia indicazioni giuste o quantomeno… probabili.

Mentre sono in macchina, assisto con disinteresse ai tentativi dell’autista di ritrovare la strada, immagino che la distanza della Colonia dai maggiori centri urbani, il cattivo stato delle strade, il costo per raggiungerla, siano stati tutti fattori per ostacolare il desiderio dei familiari di raggiungere i loro congiunti ricoverati. La rarefazione forzata di queste visite deve aver contribuito in maniera determinante ad alimentare il vissuto di isolamento e di abbandono di chi vive in questa Colonia.

Montes de la Oca, come tutti i manicomi del mondo, è collocato lontano dai luoghi di vita in cui le persone ricoverate sono cresciute e in parte vissuto. Ciò costituisce un nuovo elemento di spoliazione dell’umanità di queste persone e contribuisce a renderle tutte uguali nella loro disperazione.

Un cartello sulla sinistra ci indica che siamo arrivati. A destra, da un casello escono alcuni uomini della sicurezza. All’autista viene rilasciato un permesso e finalmente entriamo. Attorno a noi si aprono grandi spazi coperti da una vegetazione che crea una piacevole ombra nella calura di questa calda primavera argentina. Lungo i corridoi che scorrono mentre ci avviciniamo al luogo in cui si terrà l’incontro di calcio si vedono file di persone che camminano verso l’uscita. Abbiamo l’impressione che siano dei ricoverati con degli accompagnatori. Dopo un po’ vediamo dei bambini e degli adulti in bicicletta che si muovono nella direzione opposta.

Arrivati al luogo dell’appuntamento veniamo avvicinati da alcune persone che vivono all’interno dei padiglioni . Si avvicinano chiedendoci in spagnolo qualcosa che facciamo fatica a comprendere. Noi rispondiamo con un “buenos dias”, “como estas”, “cual es tu nombre” : sono le uniche affermazioni che provocano una risposta e che aprono a un sorriso.

Quando la comunicazione si fa più complessa si passa al linguaggio gestuale, accompagnato da frasi o parole in uno spagnolo molto improbabile. C’è chi chiede una foto, un cigarillo, chi protende la mano per stringere forte la nostra in segno di saluto e chi, commuovendoci, prende la nostra mano e se la passa sul volto alla ricerca di una carezza.

I volti e i corpi deformati dall’istituzione, gli sguardi altrove nell’attesa di essere scoperti, le voci gutturali che richiamano, in quello sforzo di comunicare, alla voglia di vivere e di scoprire il mondo nonostante tutto, mi ricordano volti corpi sguardi voci che ho già incontrato a Imola, all’Osservanza. Quelle immagini riemergono con forza dal passato. Il manicomio annichilisce tutti allo stesso modo, a ogni latitudine, ovunque ci si trovi sul nostro pianeta.

Mentre la partita prosegue, finirà 7 a 6 per gli argentini, mi fermo a parlare con un gruppo di spettatori che si trovano a bordo campo ad assistere all’incontro. Tra di essi vi sono donne e uomini ricoverati nella colonia , un infermiere e due assistenti di base. Mi chiedono da dove veniamo. Gli rispondo che siamo italiani. Quando aggiungo che in Italia non ci sono più i manicomi rimangono stupiti e incuriositi.

Facciamo conoscenza e ci scambiamo informazioni. Ogni tanto tra gli spettatori qualcuno si alza e mi stringe la mano in segno di saluto.Vengo a conoscenza che il figlio di Videla(capo dei capi della dittatura militare, responsabile del grande macello degli anni 70), affetto da un grave ritardo mentale, ha vissuto fino alla fine dei suoi giorni nel padiglione che ospitava le persone più difficili e più gravi, “i senza speranza”.

Durante lo svolgimento della partita di calcio incontriamo il Direttore dell’Oca, Jorge Rossetto, uno psicologo, a cui chiediamo di poter visitare la Colonia. Jorge non si fa pregare e ci mette a disposizione un pulmino consigliandoci la visita ad alcuni luoghi significativi che segnalano il processo di mutamento avvenuto in questi ultimi anni.

Visiteremo due padiglioni femminili in via di ristrutturazione, un centro diurno e una casa interna alla Colonia. Nel programma che ci propone il direttore è prevista anche la visita a un centro diurno e una casa affittata, “La casa del sol”, collocate nel paese vicino, fuori dalla struttura psichiatrica. Purtroppo non riusciremo a far visita a questi due ultimi luoghi per motivi di tempo.

Saliamo sul pulmino e ci avviamo col responsabile della riabilitazione a visitare i luoghi che il direttore ci ha suggerito. Arriviamo davanti a un padiglione, le porte non sono chiuse e le persone circolano dentro e fuori la struttura liberamente. Attualmente ospita donne diagnosticate come psicotiche che prima di venire a vivere qui erano particolarmente aggressive verso se stesse e verso gli altri. Ci racconta la nostra guida che dopo qualche mese di vita nella nuova struttura quei comportamenti erano praticamente scomparsi. Curiosi, chiediamo di sapere il perché.

Ci risponde che la migliore organizzazione degli spazi e la maggiore attenzione alle persone frutto di una maggiore disponibilità di risorse umane avevano fatto il miracolo… L’ambiente strutturalmente è quello dei grandi edifici manicomiali. Al proprio interno vi è un laboratorio espressivo e una palestra in cui fare ginnastica o psicomotricità. Notiamo lo sforzo di rendere gradevole e accogliente l’ambiente di vita nonostante la povertà di risorse. Vi sono tende e copriletto colorati. I bagni sono decorosi .Non le turche , alle quali, ricordo, erano abituati i ricoverati di Imola dell’Osservanza, ma water con ciambella e porte che proteggono la privacy delle persone. Le docce sono a vista. Esiste uno spazio per la lavanderia adatto a mantenere una migliore conservazione degli abiti evitando, tra le altre cose, il rischio che i propri indumenti vengano smarriti o indossati da altri come accadeva all’interno dei reparti dell’Osservanza i primi anni che sono arrivato a Imola. A prima vista sembra una cosa di poco conto, ma a pensarci bene è una cosa estremamente importante perché permette alle persone di ricominciare a investire sugli oggetti, a dare continuità alla propria storia, interrompendo il processo di impoverimento esistenziale iniziato con il loro internamento.

Scambiamo qualche parola con la responsabile del padiglione e ci colpisce la grande umanità che ci trasmette attraverso i suoi gesti e le sue parole. Parliamo con alcune donne ricoverate in attesa del pranzo e quando una di loro ci riconosce come italiani ci informa che una delle signore che abitano in quel padiglione sta studiando la nostra lingua. Questo ci pare essere un segnale di qualcosa che sta cambiando: si sostengono e si investono risorse attorno ai progetti che le persone decidono di intraprendere. Si lavora per restituire un futuro.

Lasciamo il padiglione salutandoci affettuosamente e ci dirigiamo verso un altro che ospita donne con un ritardo mentale. Anche qui gli spazi di vita e l’organizzazione del lavoro hanno subito sensibili cambiamenti rispetto a prima . Qui sono cambiate molte cose e un segnale lo si coglie dal fatto che prima delle trasformazioni attuate il consumo dei pannoloni era esagerato. Alle persone veniva messo e tolto il pannolone rispondendo a un bisogno dell’istituzione di ottimizzare le prestazioni. Non ci si preoccupava del fastidio che avrebbe procurato alle persone ricoverate tenersi addosso, per ore e ore, il prodotto delle loro evacuazioni intestinali o altro. E’ stato sufficiente trasformare gli spazi di vita personalizzandoli, promuovere progetti mirati, aumentare il numero degli operatori, il tempo di ascolto riservato alle persone ricoverate,in modo che acquisissero, poco a poco, una maggiore consapevolezza del proprio corpo e delle sensazioni ritrovate. E’questo nuovo atteggiamento, questa attenzione alla persona che ha permesso la drastica riduzione dell’utilizzo dei pannoloni.

In questo clima rinnovato, ci informa il nostro accompagnatore, uno sguardo particolare è riservato all’uso dei farmaci.

La tendenza è quella di abbassare il dosaggio. I farmaci, ci dice, debbono servire a far star bene le persone e non possono essere usati per sedarle e renderle innocue. Questo obbiettivo può essere raggiunto tenendo impegnate il più possibile le persone durante tutto l’arco del giornata in attività, facendole partecipare anche alla gestione della quotidianità nel reparto, ai momenti organizzati presso il laboratorio espressivo allestito al pian terreno del Padiglione, ma soprattutto rendendole partecipi delle scelte.

Salutiamo tutte le persone incontrate e ci avviamo verso il Centro diurno. Inaugurato tre anni fa, si presenta ai nostri occhi come una piazza riparata dal sole cocente da una copertura sostenuta da una struttura metallica. A destra e a sinistra dell’entrata notiamo una fila di casette basse.

Una bellissima poesia di un poeta uruguaiano, dà il benvenuto a chiunque entri negli spazi riservati alle attività che si svolgono nel centro.

Claris ed Ector, ci raccontano con entusiasmo del loro lavoro basato sul coinvolgimento delle persone nella gestione del Centro, sul recupero della storia personale, delle origini, sulla costruzione di un sentimento di appartenenza lontano dalle logiche alienanti e annichilenti del manicomio. Ci raccontano della preparazione di un libro con le storie narrate e disegnate dalle persone che frequentano il Centro. Una volta concluso, il libro verrà diffuso gratuitamente nelle scuole. Ci parlano del lavoro fatto fino a ora per creare un legame con la comunità più vicina alla Colonia e di quello che stanno preparando in occasione del Natale. Mettono l’accento sul lavoro che si fa attorno all’ immagine corporea al fine di recuperare le capacità sensoriali sopite dopo tanti anni di vita nel silenzio assoluto dell’istituzione manicomiale.

Ci dicono che molte persone potrebbero ritornare a casa. Ci parlano dell’indispensabile lavoro con le famiglie e delle risorse che riescono a mettere in campo sorprendendosi a loro volta nel superare le aspettative, della necessità di dare gli strumenti ai familiari per prendersi cura del loro congiunto, della sorpresa che manifestano quando si accorgono che non bisogna essere necessariamente un infermiere o uno psichiatra per rispondere ai bisogni di chi dopo tanti anni ritrova i propri parenti e torna a vivere con loro.

Nessuno glielo aveva detto prima, avevano sempre creduto che dovesse essere l’istituzione psichiatrica a pensare come curare i loro figli in difficoltà. Sono convinti che non bisogna colpevolizzare le famiglie, ma responsabilizzarle e permettere loro di essere parte attiva all’interno del processo di cura.

Ci raccontano la storia di una donna che aveva trascorso in silenzio gran parte della sua vita all’interno del manicomio e aveva ricominciato a parlare dopo essere ritornata nel suo paese di origine, presso la casa nella quale aveva vissuto fino poco prima di essere ricoverata.

Dopo la visita alla piccola fattoria che fa parte del centro, aver salutato calorosamente le straordinarie persone che abbiamo conosciuto, ci muoviamo per visitare un'altra struttura realizzata da pochi anni all’interno dell’area della Colonia, una casa che ospita temporaneamente un gruppo di persone che prima o poi andranno ad abitare nel paese vicino, in un appartamento in affitto, con il sostegno di alcuni “operatori convivenziali”.
Prima di ripartire passiamo dall’ufficio del direttore della Colonia per restituire le nostre impressioni ed avere un momento di confronto.

Ci informa che dal 2004 a oggi circa 400 persone hanno lasciato l’istituzione manicomiale grazie ai numerosi progetti di esternalizzazione realizzati. Scopriamo con piacere che Jorge Rossetto è a conoscenza del progetto Valerio, del processo, cioè, che ha portato al superamento degli ospedali psichiatrici di Imola, che questa esperienza e’ stata oggetto di attenzione e riflessione per impostare il suo lavoro di trasformazione dell’ospedale psichiatrico in cui opera.

All’improvviso le distanze si riducono, quegli 11000 chilometri che ci separano da Imola sembrano per un attimo svanire, sembra di essere a casa. Al momento di ripartire per Buenos Aires, lasciamo la Colonia di Montes de la Oca accompagnati dalla bella sensazione che le cose stanno cambiando, e che la strada intrapresa per mutare direzione è quella giusta.

Ennio

VISITA ALLE MADRI DI PLAZA DE MAYO - giovedì 27 novembre

Con un gruppo dei viaggiatori emiliano romagnoli vado a fare visita alla sede della Fondazione delle Madres della Plaza de Mayo. Arrivati chiediamo se possiamo incontrare qualcuna delle madres.

Da una porticina appare una signora. La prima cosa che ci chiede è: «ma quanti siete?»
Siamo una ventina e siamo italiani.

Nella stanza ci sono solo quattro sedie, ma la voglia di ascoltare i racconti di questa mamma di un figlio desaparecido è grande per cui alcuni rimangono in piedi mentre altri si adattano e si siedono per terra. Dalla stessa porta dalla quale era entrata la signora che ci aveva accolti compare una donna anziana che dopo essersi seduta, rivolgendosi a noi, inizia a parlare.
«…Noi abbiamo molti amici italiani che ci hanno sostenuto in tutte le maniere ed ancora oggi ci sono di conforto.

Noi madres non sapevamo niente di politica, ce ne stavamo a casa, preparavamo da mangiare per la famiglia, andavamo in chiesa. I nostri mariti andavano a lavorare, tra i nostri figli c’era chi studiava e chi lavorava. In molte vivevamo in povertà; accadeva che i nostri figli dessero una mano a chi non aveva un’abitazione o aiutassero altre famiglie a costruirsene una.
Ma la famiglia non ha solo bisogno della casa.

Ha bisogno del lavoro. E l’Argentina è un paese ricco, e come sempre le ricchezze sono nelle mani di pochi, dei potenti. I nostri giovani protestavano con manifestazioni civili contro le ingiustizie che vivevano, e questo non piaceva al governo dittatoriale che un giorno dichiarò che non avrebbe più permesso il disordine in Argentina.

Così venne applicato il regime del terrore.

Chi manifestava veniva arrestato e pestato con pugni e calci.
Molti morivano durante il martirio e i loro corpi venivano fatti sparire.
Le donne gravide avevano il privilegio di avere prolungata la vita sino al parto.
I neonati venivano adottati dai poliziotti che non avevano figli perché così con la loro rigida educazione militare sarebbero cresciuti con”la testa a posto”.

Quando la polizia nottetempo andava a prelevare dei “sovversivi” si presentava in massa, provocava fragori di ogni specie circondando interi isolati allo scopo di seminare terrore. Tanti giovani non tornarono nelle loro case…spariti nel nulla. Quando andavamo dalla polizia a denunciare la scomparsa dei nostri figli venivamo prese per matte, non ci rispondevano.
La chiesa è stata amica del governo. Non si è mai pronunciata in nostro favore. Quando andavamo a chiedere aiuto a un prete che aveva battezzato e cresimato i nostri figli le risposte erano: tuo figlio era un buono a nulla. Cosa c’entra la polizia. Chissà dove è andato a fare danni.
Vigliacchi!!!

Il cardinale benediceva i ragazzi mentre venivano fatti salire sull’aereo dal quale sarebbero stati lanciati nel Rio della Plata con la pancia squarciata perché i corpi non rimanessero a galla.
Nel 1978, l’anno dei mondiali, alcune di noi sono andate a Roma perché il Papa, la domenica di Pasqua, si pronunciasse sui desaparecidos, così come è avvenuto quest’anno alle olimpiadi in Cina, allorquando l’attuale Papa si è pronunciato contro la pene di morte applicata dal governo cinese.

Ma anche in quella circostanza siamo rimaste inascoltate.
Recentemente, il governo argentino, ci ha “offerto” la pace sociale: ci ha proposto di barattare i nostri figli con i soldi.

Ma si sono presi i nostri figli vivi e li rivogliamo vivi, l’alternativa è il processo.
Non vogliamo vendetta, vogliamo giustizia.
Conosciamo tutti gli assassini dei nostri dei nostri figli. Sono un centinaio.

C’è stato un momento in cui, un gruppo di mamme, la mattina, si faceva trovare davanti alle loro abitazioni. Appena uscivano, mute con le braccia conserte, gli si paravano attorno e la stessa cosa facevano in chiesa davanti all’altare mentre il boia si accingeva a ricevere l’ostia consacrata.
Tutti i giovedì in processione con i nostri fazzoletti in testa sfiliamo attorno al monumento nella Plaza de Mayo. Sono più di 30 anni che lo facciamo. Prima era una protesta contro il governo ora è un gesto in memoria dei nostri figli. Loro hanno tracciato un solco e ci hanno insegnato che se vogliamo il bene del nostro popolo dobbiamo fare politica…». Oggi è giovedì, e non vedo l’ora che si facciano le 15,30 per scendere in piazza assieme a loro. Mi emozionerò sicuramente. Saremo in tanti di noi.

Poi concludendo l’incontro con noi la signora ci ha detto: «Ho 94 anni e sino a che i miei occhi non si chiuderanno, per sempre, io tutti i giorni, racconterò qui, nelle scuole, per le strade, nei posti di lavoro dei nostri figli desaparesidos».

Tuccio

Visita al parco della memoria - mercoledì 26 novembre

Si potrebbero usare tanti aggettivi per descrivere ciò che abbiamo visto oggi: raccapricciante, orribile, tremendo…ma nessuno di questi termini rende l’idea dell’atmosfera che si respira entrando in un parco realizzato per ricordare. Di esso neanche tutte le persone del luogo conoscono l’esistenza e perfino i tassisti faticano a trovarlo e a portarci lì.


Così arriviamo nella CIUDAD UNIVERSITARIA, in un punto qualunque e ci incamminiamo chiedendo indicazioni per raggiungere questo luogo silenzioso, da cui però sembra emergere un brusio che cresce fino a diventare un unico grande grido collettivo di chi è stato imprigionato e solo qui ha trovato chi gli ha ridato voce e dignità.


La storia di queste persone che purtroppo possono essere considerate a pieno titolo vittime del terrorismo di stato ha avuto inizio nel 1976, quando il regime militare, con un colpo di stato, si è impossessato del potere e per mantenerlo ha messo a tacere coloro che avevano un diverso modo di pensare. Fino al 1983 si è proceduto a un vero e proprio annientamento di persone provenienti dal tessuto culturale e intellettuale: la loro colpa era solo quella di essere uomini o donne con funzione educativa o formativa. Insieme a loro sono stati sequestrati, torturati e poi uccisi uomini e donne che non erano in linea con le idee del regime. Prima della caduta del governo militare vennero promulgate due leggi per la salvaguardia degli assassini. La PUNTO FINAL, che chiedeva di dimenticare ciò che era successo per poter ricominciare da quel punto, e l’altra per discolpare i militari dai crimini eseguiti sotto ordine dei superiori, così alla tragedia subita dalle famiglie dei desaparecidos, si univa anche la beffa di dover continuare a vivere al fianco dei loro aguzzini rimasti impuniti grazie anche al successivo indulto.


Tutto questo non è più accettabile e possibile, dopo l’inizio dei processi nei confronti di chi ha annientato un’intera generazione (più di trentamila i desaparecidos di quegli anni) si è pensato che fosse ora di dare voce e memoria collettiva a queste persone.


Nacque così il PARCO DELLA MEMORIA,voluto dalla città di Buenos Aires non come cimitero per i suoi defunti, ma come luogo di culto in cui l’arte sia portavoce universale e globale.
All’interno del parco troviamo tre sculture scelte con un concorso a cui hanno partecipato artisti di diverse nazionalità, a cui presto ne sono state aggiunte altre due e un enorme muro, a forma di FERITA nella città in cui sono presenti 30000 mattonelle su cui dovranno trovare posto i nomi dei desaparecidos che ancora non sono stati ritrovati e aggiungersi ai 9000 già presenti.


Le storie che ci vengono raccontate durante il nostro pellegrinare all’interno del parco sono agghiaccianti: madri rapite incinte, fatte partorire per poter dare i figli alle famiglie borghesi che non ne avevano, per educarli secondo il regime militare, ragazzi che solo oggi scoprono di non essere figli di coloro che credevano fossero i loro genitori, ma di aver convissuto per più di trent’anni con i mandanti degli assassini delle loro vere madri.


…alcuni di noi restano increduli davanti a queste sequenze di orrori, al fatto che nel resto del mondo non se ne parlasse.


Il luogo scelto per la nascita di questo parco è estremamente importante per il ricordo di quei terribili anni…il RIO DELLA PLATA, proprio qui sono stati fatti precipitare dagli aerei molti desaparecidos, e proprio qui si sono perse migliaia di vite. A esse si è voluto dare un ricordo, una memoria che possa essere di tutti, a partire dai giovani studenti delle scuole che vengono in visita in gita tutti i giorni.


Usciamo da questo luogo affranti e pensierosi, ma sicuramente più ricchi. Domani si andrà a vedere e a condividere la marcia delle madri di PLAZA DE MAJO che continua oggi, come in quegli anni, tutti i giovedì pomeriggio alle 15.00


Virna e Daniela

La Plata - martedì 25 novembre


180 en todo el mundo


il corteo lungo le strade del centro della città


Si parte per raggiungere La Plata, capitale della provincia di Buenos Aires, luogo della prossima iniziativa di PATAS ARRIBA.


Da tempo i gruppi locali che lavorano attorno ai progetti di esternalizzazione (cosi vengono definiti i percorsi di fuoriuscita dai manicomi che coinvolgono le persone ricoverate in O.P) si sono attivati affinchè questa iniziativa potesse avere successo. Donne, uomini, ragazzi e ragazze che vivono negli istituti della zona saranno i protagonisti assoluti della giornata ed insieme ad operatori della salute mentale ed a cittadini volontari sensibili ai tema dei diritti, testimonieranno con forza la loro voglia di vivere la vita con dignità fuori dalle mura dell’ ospedale psichiatrico. Tutti si sono preparati da tempo per questo evento. Attraverso la costruzione di un percorso che ha messo al centro la creatività delle persone sono stati realizzati oggetti, striscioni, costumi, scritte. All’iniziativa sarà presente anche un gruppo di murga , costituito da percussionisti e danzatori che in Argentina accompagnano spesso quei momenti in cui è forte la voglia di far sentire la propria voce. Del gruppo, qui a La Plata, fanno parte a tutti gli effetti le persone ricoverate negli Ospedali psichiatrici che frequentano il centro diurno F. Basaglia.


In questi ultimi mesi, la preparazione di questa importante e sentita iniziativa è divenuto il pretesto per poter parlare, insieme alle persone che hanno vissuto l’esperienza tragica del manicomio, di diritti, di cittadinanza, di emancipazione sociale, di riappropriazione della vita.


Arrivati a La Plata scendiamo dagli autobus e poiché siamo in anticipo rispetto all’orario stabilito ci fermiamo a fare uno spuntino. Noi Emiliano romagnoli siamo in tanti e rumorosi. Alcuni componenti di altri gruppi regionali si uniscono a noi. La voglia di “star bene insieme” non manca e chiunque passa da lì non può che rimanere contagiato dall’atmosfera che si respira. C’è chi tra i commensali tira fuori dei tamburelli ai quali si accompagna una sorridente fisarmonica ed immediatamente si alzano voci che intonano tarantelle e canti popolari.


E’ tempo di muoversi. Paghiamo le consumazioni e ci dirigiamo verso Piazza San Martin.


Sembriamo tanti fili dai colori e dalle fatture diverse che si muovono nello spazio cercando di unirsi in una trama comune con altri fili, gli amici argentini. Seguiamo le tracce che, sulle nostre teste, disegnano lunghi e sottili nastri colorati. Più in là compaiono alla nostra vista fogli, stesi lungo delle corde sottili, all’ombra di un sole cocente, come indumenti ad asciugare, sui quali sono impressi forme dai colori vivaci e frasi che parlano di sogni, di desideri, di libertà. E così senza accorgercene prende corpo la trama inestricabile di un tessuto umano che un magico telaio, costruito da utopie condivise, in questo remoto posto della terra riesce a tessere. Uomini e donne che una legge, la 180, ha permesso di vivere il disagio mentale come una possibilità e non come una colpa, si incontrano per stringere la mano ad altri uomini ed ad altre donne che dopo decenni di esilio dietro le mura di una istituzione totale stanno scommettendo di nuovo sulla vita, stanno cercando una strada per la propria emancipazione sfidando una cultura ed un sistema “QUE TE QUITA EL ALMA E TE SUMERGE EN UN MUNDO DE IRREALIDAD”


Più in là il suono prodotto da tamburi, cimbali e piccoli strumenti a percussione attirano la nostra attenzione. Il suono incessante prodotto da quegli strumenti accompagna i movimenti di un gruppo di persone che sembrano rapite da una danza liberatoria. Il ritmo coinvolgente ed incalzante che quegli strumenti producono ci trasforma, ci seduce e risveglia da un sonno antico un movimento che è sempre stato dentro di noi che ci porta ad unirci agli altri. Come tanti pifferai magici i percussionisti ed i danzatori ci trascinano lungo le strade della città formando un colorato serpentone che suscita la curiosità divertita dei passanti. Attraversiamo il centro cittadino. Le auto e gli autobus fermi in attesa mentre transità il nostro corteo si inchinano al nostro passaggio


Ecco ! La città guarda dai finestrini degli autobus, dai marciapiedi, dai tavoli dei bar sparsi lungo le strade l’altra parte di se, quella negata, quella formata degli invisibili che fino a qualche tempo fa erano relegati dietro le mura dei manicomi, quella parte dell’umanità alla quale erano stati negati voce e diritti.


Dolores ed Elisabetta sono due psicologhe che hanno costruito insieme alle donne e agli uomini che frequentano il centro diurno Franco Basaglia questa giornata di festa e di mobilitazione
Son loro che, subito dopo la conclusione della manifestazione, ci invitato a visitare il centro Franco Basaglia dove lavorano.


Ci accoglie sorridente un uomo della sicurezza che protegge il centro da eventuali assalti o furti. Tutto attorno le case presentano inferriate alla finestra conseguenza dovuta alla esistenza di vaste fasce di povertà e quindi alla presenza di fenomeni di micro criminalità. Le inferriate proteggono anche alla porta e le finestre del centro diurno ma questa volta non servono per rinchiudere le persone che lo frequentano o a tutelare i vicini di casa da possibili comportamenti aggressivi di chi ha vissuto in ospedale psichiatrico. Le inferriate , in questo caso, servono a preservare le persone, che frequentano il centro e che sono protagoniste di un progetto di inclusione sociale, dalla possibilità di essere oggetto delle cattive intenzioni di piccoli delinquenti locali.


Dolores ed Elisabeta, due psicologhe che prestano la loro opera all’interno del centro diurno ci introducono negli spazi di questo fortino
Visitiamo la sala da pranzo, il soggiorno, la cucinetta. Nel centro è allestita una mostra fotografica su Franco Basaglia che però non riusciamo a visitare poiché nessuno dei presenti è in possesso delle chiavi. Visitiamo i luoghi all’aperto. Ci mostrano l’orto in cui si coltivano zucche, pomodori ed altri ortaggi. Possiedono anche un allevamento di vermi. Dolores con un bastone solleva del terriccio e ad noi occhi compaiono dei vermi lunghi e grassottelli che si contorcono infastiditi. Elisabeta ci indica il luogo, sotto una tettoia, dove si tengono le riunioni d’equipe e le assemblee con gli utenti del centro diurno . Di fianco, a ridosso di una parete è presente l’immancabile parilla, la griglia sulla quale si può cuocere la saporita e tenere carne argentina.


La palazzina nella quale è ubicato il centro si sviluppa su due piani. Al secondo piano si trovano gli ambulatori dove si tengono i colloqui individuali e si dispensano i farmaci.


La cosa più interessante è costituita dal fatto che gli operatori fanno un costante ed intenso lavoro di contatto con la comunità, con i cittadini. Il centro che è aperto dal lunedì al sabato fino alle 20, 20 e 30, ogni giorno si riempe di artisti, artigiani, danzatori, esperti di multimedia, studenti, tirocinanti che interpretano gli interventi fuori da logiche psichiatriche, utilizzando spazi/laboratorio attrezzati per lavorare la cartapesta, per far musica, danza, dipingere e costruire ceste.


Tutte queste cose le abbiamo ritrovate nella festa collettiva alla quale abbiamo partecipato.
Uno di noi, prima di andar via, di fronte all’entusiasmo con il quale Elisabeta ci raccontava la sua esperienza nel centro le ha chiesto se fosse una dipendente dell’ospedale psichiatrico.
“Sono una psicologa laureata da qualche anno”, ha risposto Elisabeta. E poi continuando : “Faccio la volontaria da circa tre ed in questo momento non penso ad un’assunzione. Spendo il mio tempo qui semplicemente perche m piace”
Per un momento si è creato un breve momento di silenzio e gli occhi di Elisabetta si sono posati sui nostri: sembrava si domandasse “che strana preoccupazione quella di questi italiani”.


Ennio

Il diritto al lavoro una buona medicina contro il disagio mentale

Nella breve assemblea della sera prima, poco dopo una fantastica cena ( insalata mista e spaghetti scotti al sugo) presso l’hotel che ci ospita, si decide di incontrare i lavoratori dell’ hotel BAUEN, un hotel occupato. Nel 2003 in seguito alla deflagrante crisi economica che mise in ginocchio tanti lavoratori e famiglie argentine, i lavoratori di questo albergo decisero di non abbandonare l’azienda fallita, come fece l’imprenditore, ma di occuparla e valorizzarla: questa fu la ragione per cui si costituirono in cooperativa. Attualmente è un hotel in cui i lavoratori sono in lotta, per fermare il tentativo di alcuni imprenditori di riappropriarsene. Loro difendono così il valore sociale e culturale di questa bella esperienza di resistenza. Un bell’esempio di come salute mentale e diritti possono viaggiare insieme. La perdita del lavoro può generare disperazione, ma la forza del gruppo di rivendicare.

Nel pieno centro di Buenos Aires si erge maestoso con i suoi venti piani e le sue 200 stanze l’hotel BAUEN. Entriamo, siamo in tanti e ci ritroviamo in una enorme hall che ci intimorisce. Mi dirigo verso un cameriere che sta imbandendo i tavoli del ristorante e chiedo se c’è qualcuno che è disposto a raccontarci la storia di questo albergo. Mi aspetto una risposta annoiata ed evasiva, ma mi sorprende la sua reazione: sposta immediatamente l’attenzione dalle cose che stava facendo, abbandona le posate sul tavolo e mi invita ad andare con lui fin che raggiungiamo una signora disposta a rispondere alle nostre domande e alla nostra curiosità; le spiego che siamo italiani ed il motivo per cui siamo qua.

Appena sente le ragioni che ci hanno portato fin lì si mette immediatamente a nostra disposizione e ci invita a seguirla fino al terzo piano. Usciamo dall’ascensore e ci dirigiamo verso la porta di un ufficio. Entriamo ed ad accoglierci oltre la luce che filtra vigorosa dalle vetrate e che stride con la penombra del corridoio alle nostre spalle, ci sono le immagini del Che, di Chavez, di Morales, delle madri de la Plaza de Mayo insieme ai manifesti delle iniziative organizzate dai lavorati del Bauen per difendere il loro posto di lavoro dalle mire di speculatori locali o internazionali. Questo è il luogo dove i lavoratori del BAUEN occupato incontrano chi è interessato alla loro esperienza di lotta. Dopo circa un’ora di conversazione estremamente interessante e stimolante ci fanno visitare l’hotel. Ci accompagnano fin sul la sommità dell’edificio sul quale si trova un ampissimo terrazzo. Dopo aver goduto della magnifica vista panoramica della città di Buenos Aires ci lasciamo con la promessa di rivederci mercoledì sera per una cena durante la quale verrà proiettato un video in cui, “los trabajadores en lucha” ci racconteranno la storia di questi ultimi anni.

Ennio

Bandiere…miracolose

Le bandiere che abbiamo fatto volare fin qui da Imola, Ferrara, San Giorgio in queste giornate stanno diventando protagoniste assolute.

Elemento indispensabile alla nostra presenza rumorosa e simpatica che ci accompagna in tutti gli spostamenti.

Alle firme depositate che ci hanno sostenuto in questa idea si vanno aggiungendo quelle dei cittadini argentini che incrociamo lungo i marciapiedi di Buenos Aires. Siamo una presenza che non passa inosservata e attira la curiosità della gente. Con la penna in mano ci rivolgiamo alle persone che incontriamo, poi “firma! firma!, patasarriba! patasarriba! sono le parole più ricorrenti.

La gente si ferma e la cosa che ci stupisce è la voglia di sapere, “che cosa vogliono da noi questi italiani”. E’ questo il motivo che ci ha spinto in 240 a percorrere tante miglia per raggiungere questa terra. La risposta immancabile è: “contro ogni pregiudizio! NO agli ospedali psichiatrici”.

La mano convinta afferra la penna e traccia la propria firma sulla nostra bandiera. C’è chi si sofferma e vuole approfondire la questione. Si crea un naturale capannello di persone. Tutti hanno voglia di raccontare un pezzo di questa straordinaria esperienza.

Egidio il saggio

Conferenza stampa all’Unibo di Baires - lunedì 24 novembre

DA VICINO NESSUNO E’ NORMALE

Dopo un’affollata assemblea mattutina nella la hall dell’albergo che ci ospita ci prepariamo a partire dall’hotel Salles per partecipare alla conferenza stampa che si terrà alla sede dell’università di Bologna a Buenos Aires. I preparativi sono febbrili. L’atrio dell’hotel è irriconoscibile, si è trasformato all’improvviso in un grande spogliatoio. C’è chi indossa le magliette con il logo di patas arriba , chi si veste con le bandiere che abbiamo portato dall’Italia annodandosele al collo e c’è chi ha tirato fuori dalla valigia magliette con la scritta:”da vicino nessuno e’ normale”. Le spillette con il richiamo ai diritti e alla salute mentale spuntano sul petto dei viaggiatori e sugli zainetti che accompagneranno il nostro cammino. L’ albergo e ormai diventato troppo piccolo per contenere l’entusiasmo dei 37 emiliano romagnoli.

Gli scatti delle macchine fotografiche e le riprese video si moltiplicano. E’ come se provassimo il timore che l’energia circolante nell’aria attorno a noi possa disperdersi, dissolversi e che la tecnologia abbia magicamente il potere di trattenerla per renderla disponibile quando ne avremo bisogno. La porta dell’hotel si spalanca, cedendo di fronte all’onda d’urto dei viaggiatori e finalmente quell’ energia del cambiamento si libera e trova il luogo dove esplodere: la strada.
E cosi lungo il marciapiedi dell’Avenida si crea un corteo festoso non autorizzato che con grande allegria si avvia verso la sede dell’università di Bologna dove ci attende il responsabile dell’Ateneo, i nostri amici dell’ADESAM, dell’UNASAM, la segretaria dell’ambasciatore e soprattutto gli altri italiani appena giunti in terra argentina dopo un viaggio un pò tribolato.
Dopo i saluti di rito, in maniera forte e prorompente prendono campo le emozioni, i sentimenti attraverso le testimonianze di Daniela, mamma che ha voluto partecipare a questo viaggio con la sua famiglia coinvolgendo i suoi figli Mirko e David di 16 e 10 anni perché convinta del valore educativo di un esperienza come la nostra. La testimonianza commossa, di Annamaria, la voce di chi sente le voci , che ha afferma con forza la necessità, da parte di ciascuno di noi, di riprendersi la vita. La priorità di combattere i pregiudizi in prima persona di Egidio, familiare convinto sostenitore del fare assieme e dei gruppi di auto e mutuo aiuto.
E’ poi la volta di Tuccio che a un certo punto della sua vita ha dovuto fare i conti con il malessere esistenziale di suo figlio e, proprio a partire da quella esperienza dolorosa, ha messo in guardia tutti dall’idea malsana di riproporre i manicomi come una cura possibile. Belle le parole con le quali ha concluso la sua testimonianza: “oggi mio figlio è guarito, lavora, ha delle relazioni significative, dirige una polisportiva insieme ad altri. Se Basaglia non avesse chiuso i manicomi mio figlio sarebbe stato una vittima di quelle pericolosa istituzione che serve esclusivamente ad annientare l’essere umano”.
Sono tante le voci arrivate in terra argentina per affermare lo stesso concetto.
Il colpo finale, lo ha dato il film sul viaggio Roma Pechino, quello girato dalla nostra amica imolese Margherita. Il film ha commosso tutti per la forza con la quale i protagonisti del documentario hanno raccontato con chiarezza la pratica del fare assieme nel suo farsi.
Dopo un buffet semplice e genuino, informale, con vino tinto molto buono e il rettore impegnato a rammentarci che quella era casa nostra, abbiamo salutato, preso al volo un taxi per correre verso la municipalità di Buenos Aires dove i rappresentanti della città insieme all’associazione ADESAM hanno organizzato un incontro per salutare i viaggiatori e mettere l’accento sulla necessità di un superamento degli ospedali psichiatrici e di un cambiamento nel campo delle politiche relative alla salute mentale.

All’appuntamento sono presenti un centinaio di persone tra italiani e argentini.

Dopo circa un’ora l’incontro si conclude. La stanchezza si fa sentire, aiutata dal caldo umido della giornata. Nella nostra memoria rimangono fissate le belle immagini della mattinata e le parole importanti che sono state spese soprattutto da familiari e persone che hanno dovuto ricorrere ai servizi di salute mentale per affrontare un momento critico della loro esistenza.

Più sfocata, diciamo pure deludente, quella del pomeriggio in cui i discorsi dei rappresentanti istituzionali sulla 180, sull’importanza di affermare i diritti di cittadinanza, sulla necessità di chiudere con l’esperienza dei manicomi, divengono più freddi, prevedibili e noiosi senza quel calore che solo chi ha attraversato l’esperienza del disagio può trasmettere.

Mentre lasciamo il Municipio della città gli impiegati del comune ci invitano a uscire da una porta laterale.

Dopo un po’ scopriamo il motivo. Davanti all’entrata principale del municipio, cittadini argentini stanno manifestando con slogan, tamburi e striscioni. Chiedono lavoro, casa, terra e una maggiore attenzione ai bisogni dei più poveri.

Forse questa è la conclusione migliore per una giornata come quella che abbiamo vissuto oggi e che ci ricorda con forza che al di là dei discorsi, la strada per la salute mentale è nella partecipazione, nel protagonismo del pueblo, come chiamano a Buenos Aires i cittadini, è nella pratica dei diritti.
Ennio

MEMORIA JUSTICIA VERDAD - domenica 23 novembre

La sera dopo la cena ci si ferma per mettere a punto il programma del giorno dopo: si stabilisce che non possiamo perderci una visita alla fiera di San Telmo, una occasione ghiotta per chiunque ama la musica di strada, passi di danza di tango i prodotti dell’artigianato locale e gli oggetti di antiquariato. Nel pomeriggio ci dirigiamo verso Avenida San Juan dove ci hanno detto che durante la demolizione di un edificio del club atletico, divenuto un centro clandestino di detenzione, tortura e sterminio durante il regime militare argentino negli anni 70, e la costruzione di un cavalcavia sono state ritrovate le fosse comuni in cui erano state occultati i corpi di numerosi argentini considerati dei pericolosi sovversivi semplicemente perché credevano che la vita dovesse essere vissuta nel rispetto dei diritti di tutti:
Ora questo luogo è diventato un importante luogo della memoria.
Leggere le scritte sulle porte di ingresso che con prepotenza si offrivano al ricordo sfidando l’oblio, guardare le foto dei giovani argentini che avevano concluso la loro esistenza tra atroci sofferenze, pensare alla nostra vicinanza a quella cultura e quegli sguardi che chiedono giustizia ancora oggi, ci ha fatto venire la pelle d’oca. Perché tanta atrocità? Perche l’uomo deve essere così malvagio? I nostri passi verso Puerto Madero alla ricerca del parco naturale sulle sponde del Rio della Plata, luogo abitualmente frequentato dalle famiglie di Buenos Aires alla ricerca di un luogo presso il quale trovare ristoro e sfuggire al caldo dell’estete a Buenos Aires, sono stati punteggiati dal ricordo di quegli anni, anni importanti per noi italiani, gli anni settanta, anni di lotta, in cui un’intera generazione ha cercato di cambiare il mondo e durante i quali ha visto la luce la legge Basaglia, la legge 180 che ha sancito la chiusura degli ospedali psichiatrici nel nostro paese.
Ennio

Arrivo a Buenos Aires - sabato 22 novembre

Il volo AZ680 partito alle ore 23.00 da Roma è arrivato a Buenos Aires alle ore 09.33 locale.
Finalmente siamo arrivati in questa grande città dopo un viaggio lungo e faticoso.
14 ore su un aereo che ha fatto rotta verso il Sudamerica sorvolando la Sardegna il grande deserto del Sahara, le maestose acque dell’atlantico, lambendo le coste del Brasile per atterrare,dopo aver imboccato il grande delta del Rio della Plata, sulla pista dell’aeroporto di Buenos Aires.
Scesi dall’aereo ci attendeva un brusco cambio di temperatura: 25°
Alcuni di noi, mentre si attendeva il visto d’entrata nel paese, cominciavano a sfilarsi giacche, pullover ed a rivestirsi con magliette di cotone che prima della partenza aveva avuto l’accortezza di infilare nei loro zainetti.
Guadagniamo l’uscita dell’aeroporto e ci dirigiamo verso i pullman che ci attendono per portarci in albergo. La stanchezza per un viaggio durante il quale solo in pochissimi erano riusciti a riposare si leggeva sul volto di tutti ma la curiosità per ciò che si presentava davanti ad i nostri occhi ci manteneva vigili, all’erta con lo sguardo schiacciato contro il finestrino ed il dito puntato verso ciò che scorreva davanti a noi. E’ circa mezzogiorno e finalmente prendiamo possesso delle nostre camere. Una doccia veloce, un tentativo di stendersi sul letto o rilassarsi su una poltrona e poi via ad assaporare il gusto di questa grande città. Bambini sempre bambini mai sazi ed eccitati da tutto ciò che ci si presenta davanti, un oggetto di artigianato,una scritta sul muro,un cartellone pubblicitario, un monumento, alla ricerca costante di qualcuno accanto a se con il quale condividere la scoperta. Non ha senso scoprire questa città da soli e così i primi giorni cerchiamo l’abbraccio del gruppo ed ogni spostamento è concordato insieme agli altri e non semplicemente per motivi di sicurezza. Vaghiamo per la città ed ogni attraversamento pedonale diviene occasione per esplorare un mondo nuovo. E’ come se alla fine dei tappeti zebrati che ospitano queste ampissime strade ci aspettasse un nuovo spettacolo imprevisto. Rimaniamo affascinati dalla disponibilità delle persone che incrociamo e che fermiamo per cercare una risposta ai nostri frequenti quesiti. Il tempo qui sembra rincorrere la lentezza e restituisce all’incontro un significato inusuale che pure un tempo è appartenuto anche a noi. Spesso la domanda trascina dentro di se la vita di qualcuno di noi, e così ci ritroviamo a parlare della nostra provenienza geografica e dopo un po’ senza accorgercene, piano piano ti ritrovi ad ascoltare storie di amici e parenti italiani con i quali i nostri occasionali interlocutori hanno condiviso momenti della loro esistenza.
Cerchiamo un posto dove pranzare e ci facciamo sedurre da un ristorante che sembra ci offra un pasto dignitoso a prezzi bassi. Le grigliate di carne, pollo e salsicce la fanno da padrona ma non manca chi sente la nostalgia di casa ed opta per gli spaghetti all’italiana il tutto innaffiato da abbondante birra argentina. Tutto a posto ? sembra di si . E’ il momento di raccoglierci e rientrare in albergo ma la città, vuole farci pagare pegno, ci mette alla prova e tenta con il suo fascino di sedurci ci distrae con la sua frenetica ed operosa umanità, con i colori potenti e pieni figli di un cielo cristallino: Manca Andrea ci guardiamo intorno stupiti e pieni di preoccupazione, ci ricontiamo ma Andrea non compare. Bambini!! come se bastasse rifar la conta per rivedere il contorno del nostro amico disegnarsi d’avanti ad i nostri occhi proprio come quando si gioca a nascondino. Ci guardiamo intorno, Andrea non c’è proprio la grande megalopoli sud americana sembra averlo inghiottito nelle sue fauci ed improvvisamente la città si trasforma e sembra mostrarci il suo volto cattivo. Il gruppo organizza le ricerche, si chiede aiuto alla polizia che pattuglia le strade, gli lasciamo una foto per facilitare le ricerche, chiamiamo il consolato italiano a Buenos Aires, i nostri amici dell’ADESAM e l’agenzia di viaggi che ha organizzato il soggiorno in terra argentina. Le ore passano di Andrea non se ne sa nulla. Non ce la sentiamo di star fermi e aspettare che si compia un miracolo. Ci organizziamo per una nuova ricerca dividendoci i settori.
I cercatori, circa 30 ritornano a setacciare il territorio nella speranza di ritrovarlo. Il tempo passa e le facce che si incrociamo sono sempre più tirate e preoccupate.
Sono le sei del pomeriggio quando finalmente una telefonata annuncia il ritrovamento: Tiziana, Annamaria, Daniela e Lucia ci danno la buona notizia, Andrea è di nuovo dei nostri.
Ennio