giovedì 19 febbraio 2009

Venerdì 28 novembre - La Boca (Buenos Aires)

Meglio che alla Bombonera 

Secondo le nostre aspettative il pomeriggio del 27/11/08 avremmo dovuto pestare l’erba di uno degli stadi più famosi al mondo: la mitica Bombonera.

Ogni persona appassionata di calcio sa che potrebbe essere un momento molto suggestivo ed emotivamente importante. Saliamo sui soliti pullam molto eccitati, tanti di noi con le scarpette ”ingrassate “ al punto giusto.

Fuori piove ma a pochi importa se il prezzo da pagare sarà giocare sotto la pioggia. Durante la riunione organizzativa dell’ A.N.P.I.S. (programma “dettagliato” del nostro soggiorno) sono stato incaricato di raccogliere le adesioni di quante persone desideravano giocare; da più parti mi arrivavano richieste che andavano sempre nella stessa direzione:”ma ci sarà spazio per tutti? Anche 5 minuti ma noi ci terremo a giocare tutti”; ed avanti di questo passo.

Quando durante il tragitto ci hanno comunicato che, visto le abbondanti piogge dei giorni scorsi e il concreto rischio di pioggia anche nella giornata odierna le partite si sarebbero dovute svolgere all’interno di una palestra, gestita dal Club Boca Junior, nei pressi del grande stadio, la nostra delusione è stata cocente.

La frase più ricorrente è stata ” c’era da immaginarselo che non ci avrebbero fatto giocare dentro il mitico Bombonera”; io stesso avevo un’idea non molto distante da questa.

La partita di calcetto che la nostra rappresentativa Emilia Romagna ha giocato con una squadra d’Argentini, persone ricoverate presso l’ospedale psichiatrico Colonia Montes de Oca, è stata bellissima e colma di intensità emotiva. Il livello di impegno profuso è stato alto, si è lottato su ogni pallone, i visi tirati dei contendenti esprimevano gioia: il piacere di correre dietro un pallone  che tuttavia sarà cosa poco nobile, ma che fa sentire cosi tanto vivi.

In campo abbiamo scambiato poche parole, un po’ per la lingua, un po’ per non rubare spazio al gioco; ad ogni palla in rete, Argentina o Italiana che fosse, tutta la numerosa panchina della rappresentativa dell’Emilia Romagna si precipitava in campo ad abbracciare lo sbalordito goleador e questo è stato il modo migliore per esportare il modello A.N.P.I.S. che è maturato nella nostra regione , per il quale giocare una partita di calcio è un’opportunità in cui ciascuno può esprimersi con gli altri. L’eccitamento che scaturisce per un’impresa eccezionale come quella di siglare un goal diviene l’occasione per condividere un momento gioia poiché, a mio avviso non condividerlo, ridurrebbe, quell’evento a ben poca cosa .

I nostri avversari Argentini si sono resi immediatamente disponibili a partecipare a questo momento di festa collettiva.

Il problema è stato sgombrare il campo dalla nostra presenza. Ci siamo trattenuti a far firmare le bandiere portate dell’Italia e a provare ad interloquire alla meno peggio.

Ci siamo veramente divertiti , ci ho pensato più di una volta, è stato bello giocare con quelle persone su quel campetto in quella palestra e probabilmente la perfetta erba del mitico Bombonera, a distanza di tre mesi non mi avrebbe lasciato un ricordo altrettanto intenso.

Dopo la partita abbiamo visitato lo stadio e il museo al suo interno dove alcuni di noi hanno acquistato alcuni souvenir. Dopo abbiamo fatto una passeggiata all’interno del quartiere Caminito

fino all’ora di cena consumata in due ristoranti probabilmente aperti appositamente per noi, animati al ritmo di tango, ballato da due bravissimi professionisti (o molto vicino ad esserlo).

Tutto molto bello probabilimente un po’ finto. Con noi c’erano anche alcune persone conosciute alla Plata e “ospiti” (per usare un eufemismo) del manicomio femminile ma  mentre noi ci si apprestava a sederci per cenare loro rientravano perché per loro era già tardi come detto Carmen, la psicologa volontaria del C.D. Basaglia. È stata una grossa ferita, mi sono sentito tanto turista. 

Una particolare nota di stima alla ADESAM, associazione argentina di operatori e volontari che senza un pesos si adoperano con tanta passione. Una passione che dà speranza ed ha tanto da insegnare.   

Andrea da  Ferrara

mercoledì 18 febbraio 2009

Pranzo a favore del progetto PATASARRIBA

(clicca sull'immagine per ingrandire)
Prenota entro il 5 marzo al 051/570176

Radio La Coliafata (2)

Siamo alla Colifata una postazione radio in mezzo al parco del Borda, uno dei grandi manicomi di Buenos Aires  che ospita circa un migliaio di persone.

Quando arriviamo troviamo un gruppo di persone, tutte sedute a formare un ampio cerchio. L’attrezzatura necessaria per la trasmissione, pc, mixer microfoni e altro,  è collocata su una sedia di legno ed un vecchio carrello che da giovane probabilmente era stato utilizzato come   portavivande o dispensario per gli psicofarmaci: un lavoro noioso. Oggi  occupa una posizione invidiabile. Si trova al centro di un via vai di voci e di suoni che grazie alla tecnologia  di quegli strumenti che poggiano il loro peso sulla sua schiena possono raggiungerlo ed essere inviati, lontano, verso destinazioni sconosciute.

Due persone conducono la trasmissione. Una di loro, in diretta radiofonica, spiega chi siamo e ci presenta al gruppo di colifisti i quali ci accolgono con entusiasmo. Tra i presenti qualcuno si azzarda a cantare qualche strofa di una canzone  napoletana; altri ci salutano con un “Forza Italia”, un altro ancora invia un messaggio augurale “con tutti i pazzi  e con patasarriba creeremo un mondo migliore”: preferiamo quest’ultimo slogan.

Riceviamo la notizia che possiamo usare la macchina fotografica  e la video camera.

All’entrata ci avevano sconsigliato di mostrarle e le avevamo nascoste nei nostri zainetti in attesa di essere autorizzati. La strategia della negoziazione ha funzionato ed uno dei medici in servizio che conosce Ugo, uno psichiatra italiano di Torino che ci ha permesso di prendere contatto con i responsabili della radio e che fa parte del nostro gruppo, ci comunica la bella notizia. 

Come degli assetati dopo un lunga marcia sotto un sole cocente estraiamo velocemente le nostre macchine  e cominciamo a dissetarci alle fonte di quelle immagini che si animano davanti a noi e che avidamente, catturiamo con le nostre macchine da ripresa.

Ci saluta con grande affetto il presidente della Colifata, un anziano signore che proprio in questa giornata festeggia il proprio compleanno. Ci uniamo al coro che parte spontaneo e la canzoncina “tanti auguri a te…scavalca le mura del Borda e si incammina per il mondo

Intervengono Nives, Rita, Daniele, ….insieme portano il saluto ed il sostegno di tutti noi emiliano romagnoli  alla lotta antimanicomiale degli argentini.

Ora sono le mani di Hugo Lopez che stringono il microfono. Hugo, collabora da anni con la radio.  Per tantissimo tempo ha vissuto nell’ospedale psichiatrico ma ora finalmente vive in una casa vera a Buenos Aires. Hugo, un poeta all’impronta, è un vero mattatore della trasmissione, circola la voce che ha suonato con Manu Chao.Le sue parole sono una valanga di saggezza. Esordisce così: Patasarriba vuol dire rivoluzione e rivoluzione vuol dire evoluzione… il resto è una delizia per le nostre orecchie.

Radio La Colifata è un’ esperienza straordinaria ed i protagonisti sono loro, molti dei quali ancora ricoverati. I colifisti hanno la capacità di suscitare l’entusiasmo di chi si avvicina alla loro postazione. Tanto ritmo, tanta musica che spontanea nasce la voglia di ballare e senza accorgercene ci troviamo  a muoverci all’interno dell’ampio cerchio in mezzo ai grandi alberi  del parco seguendo le note che si riversano nello spazio che calpestiamo. Anche qui come durante gli altri incontri ai quali abbiamo partecipato in terra argentina la musica è sempre stato il collante naturale che ha  tenuto assieme le persone e le loro storie.

Alle spalle di chi è alla consolle, su una grande lavagna nera, col gesso una mano ha scritto il programma della trasmissione di oggi. Il palinsesto della giornata è fittissimo. La trasmissione è iniziata alle 15 e 30 e si concluderà alle 19 e 30. Gli interventi sono tanti e tutti speciali. Chi prende la parola racconta le esperienze di vita o presenta personali produzioni narrative. Le persone che incontriamo hanno maturato una grossa competenza e si mostrano particolarmente esperti nel dare vita alla trasmissione. Tutti noi ci chiediamo cosa ci facciano li dentro. Ci immaginiamo che una delle ragioni possa risiedere nel fenomeno della  povertà che in Argentina investe molte persone e non tanto in una necessità terapeutica.

I segnali di una generale condizioni di indigenza salta agli occhi di notte, quando battendo le strade del micro centro di Buenos Aires lo vediamo animarsi di bambini che dormono avvolti in cartoni sulla soglia di qualche negozio per garantirsi un minimo riparo o di piccoli gruppi di ragazzini che affondano le loro piccole mani nude nei sacconi della spazzatura lasciati sui marciapiedi alla chiusura dei negozi per potere separare con destrezza  la plastica dal vetro e dalla carta. Il tutto viene fatto con estreme velocità poichè altri sacchi d’ immondizia, attendono di essere esplorati da quelle minuscole mani prima della concorrenza…Altri bambini.

Sempre più il manicomio ci pare essere non tanto un luogo di cura della follia ma un posto dove, paradossalmente, si consuma il privilegio di avere un tetto sotto il quale ripararsi un letto sul quale riposarsi ed una scodella di cibo assicurata.

Ma torniamo alla radio La Colifata esperienza grazie alla quale le persone si spogliano dell’abito di paziente e le parole matto, loco recuperano la loro  dignità tutta il loro potenziale di trasformazione. Il racconto e la saggezza, l’esperienza di chi continua a vivere in questo territorio inventato dalla psichiatria ed ormai alla deriva come un cargo con i motori in avaria si lascia trasportare dalle correnti senza trovare  un approdo ed in questo vagare  la gente che lo abita riscopre la propria umanità ospite di un  corpo che l’istituzione manicomiale ha tentato invano di imbrigliare tenendone prigioniera la mente. E questo messaggio corre e cavalcando le onde trasmesse dalla Colifata raggiunge la comunità che le sta attorno per essere rilanciato sempre più in là da altre radio locali che, come in un gioco di specchi, piegandosi alla sua forza divengono ponte per irradiare questo segnale di libertà.

Da Imola abbiamo portato con noi le testimonianze di alcune persone che hanno vissuto un esperienza difficile e faticosa sul piano umano. Scegliamo uno tra i tanti contributi quello di Franco (che coincidenza anche Basaglia si chiamava così) con il quale augura agli uomini che abitano  nei manicomi argentini  che venga presto il giorno in cui possano decidere di curarsi liberamente e di prendere in mano  il proprio  destino anche nella sofferenza. Con l’aiuto di un’amica argentina proviamo a tradurlo in spagnolo e  aspettiamo che venga trasmesso .

All’improvviso un nubifragio ci sorprende: a volte anche gli dei sono dalla parte sbagliata

Nel giro di pochi minuti i preziosi strumenti che permettono alla Colifata di fare sentire forte la sua voce trovano riparo in una piccola  casettina posta a poca distanza dal grande mosaico che fa da sfondo ai tecnici del suono.

Insieme agli strumenti al pc al mixer ed ai microfoni anche le persone che avevano dato vita al vivace cerchio della Colifata lo abbandonano con passo veloce e  cercano di evitare la pioggia che rapidamente cresce d’intensità. Anche noi ci diamo alla fuga e mentre corriamo pensiamo al messaggio di Franco con la speranza che la radio riusca a mettergli le ali

Siamo alla ricerca dell’uscita. Le indicazioni, ospitate su vecchi e consunti cartelli o dipinte sulle mura fatiscenti dell’ospedale psichiatrico che da anni non ricevono nè attenzione nè cura dagli uomini che lo abitano, non ci sono d’aiuto. Guardandoci attorno cerchiamo qualcuno che possa orientarci per ritrovare la via dell’uscita.  Rivolgiamo la nostra richiesta d’aiuto alla prima persona che incrociamo: lei ci regala un  sorriso e ci risponde in spagnolo: state cercano la strada per fuggire? E subito dopo accompagna quella frase con un gesto della mano teso ad indicarci la direzione da seguire per “fuggire dal Borda”

All’ uscita incontriamo un gruppo di agenti addetti alla sicurezza, rinchiusi nella loro misera guardiola le cui pareti annerite e orfane di una vernice che da tempo ha deciso di abbandonare quel luogo prima degli uomini, scandiscono il tempo come il viso, abitato da rughe impietose, di un vecchio votato ad una inesorabile agonia .I guardiani, prigionieri anch’essi del loro ruolo, ci guardano con indifferenza e trascorrono il tempo a conversare davanti ad un fornelletto elettrico riscaldando l’acqua per il loro mate.

Buenos Aires è sommersa da una pioggia torrenziale. Come tutti gli abitanti di Buenos Aires che hanno un tetto sulla propria testa, siamo al riparo. La provvidenza ci viene in soccorso e dal nulla come il coniglio bianco di alice nel paese delle meraviglie compare un taxista che cerca di raggiungere rapidamente la propria auto. Viene immediatamente  preso d’assalto da tutti noi.

In quattro ci infiliamo nella vettura. Siamo salvi! Mentre ci dirigiamo verso l’ hotel che ci ospita, attraversiamo una Buenos Aires trasformata in una città lagunare: incredibili masse d’acqua spostate dal movimento delle auto, ormai divenute barche a motore, creano un moto ondoso irriverente che invade i negozi e gli atri dei palazzi inutilmente difesi dai sacchetti di sabbia posti a estremo baluardo di quell’oltraggioso gesto della natura. L’autista ci informa che la pioggia  difficilmente abbandona la sua morsa sulla città e che essa ci sarà compagna per qualche giorno ancora. Il nostro pensiero va ai bambini di strada che dovranno trascorrere le prossime notti riparandosi con cartoni inumiditi e richiedendo di tanto in tanto ai passanti distratti e frettolosi qualche pesos d’elemosina

Ennio

Radio La Coliafata (1)

E' successo tutto grazie ad una serie di incontri fortuiti e...fortunati.

La lunga attesa dell'aereo a Fiumicino ha portato i nostri più audaci e smaliziati  ad aggirarsi fra le persone in attesa, raccontando chi eravamo e chiedendo di firmare la bandiera di Patasarriba che poi avremmo portato e lasciato agli amici argentini.

Fra i malcapitati anche tale Paolo Moiola, giornalista italiano che gira da anni per l'america latina interessandosi di questioni sociali, al quale non  è parso vero di trovarsi in mezzo a un gruppo come il nostro, eterogeneo e non ben identificabile, ma che fin da subito ha destato il suo interesse.

Durante le lunghe 14 ore di volo, fra un sonnellino e un film gli abbiamo raccontato la nostra storia e il motivo di Patasarriba e così ci ha “sposato”, nel senso che la settimana successiva ci ha seguito ovunque potesse aggregarsi e unirsi alle nostre manifestazioni.

Un giorno, precisamente il  mercoledì, si è presentato all'appuntamento con noi per andare al Matadero insieme ad altri 3 italiani, appena arrivati a B A. Uno di loro era uno psichiatra di Torino, Ugo Zamburru, con cui Paolo collabora da tempo, che lavora a Torino ma ha casa a BA. Ovvero: appena può prende ferie, viene a BA e porta avanti varie collaborazioni come volontario. Una fra queste: la Radio La Colifata. Chiacchieriamo a lungo quel mercoledì pomeriggio, di quello che si muove nell'ambito della psichiatria in Italia (fra cui Il treno per Pechino, i gruppi di automutuoaiuto il movimento  di “le Parole Ritrovate”, i gruppi sportivi legati all'esperienza dell'Anpis....) e anche dell'importanza di uscire, di muoversi, di farsi conoscere e andare a cercare cose nuove. Ugo è a BA in questi giorni anche per portare avanti il progetto di aprire un Caffè Basaglia nel popolare e suggestivo quartiere di San Telmo, a pochi passi dalla Plaza de Majo. Nasce da queste chiacchiere del mercoledì pomeriggio l'ipotesi che il sabato Ugo possa farci da apripista presso il più grande manicomio di Buenos Aires, il Josè Borda, per assistere a quello che lui non esita a definire - citando le parole dell'ideatore e coordinatore di Radio La Colifata Alfredo Olivera - un progetto politico, clinico ed estetico, ovvero la trasmissione in diretta della radio che da 12 anni tutti i sabati pomeriggio dalle 15 alle 19 trasmette da dentro il cortile del Borda ed esce nell'etere, anche via internet, per raggiungere tutto il mondo. Un vero ponte di collegamento fra il dentro e il fuori, fatto di parole, musica, auguri, telefonate in diretta, discussioni, racconti personali etc etc.

L'appuntamento quindi è per il sabato alle 15 davanti ai cancelli di questo gigante che è il Borda: spazi grandi e desolati anche all'ingresso, che sembrerebbe più un piazzale di periferia abbandonato a se stesso se non fosse per la sbarra e la guardiola con la polizia fucile alla mano davanti alla quale mettiamo subito via le macchine fotografiche. Siamo una quindicina di persone e Ugo ci presenta come la delegazione italiana in visita a BA per il progetto Patasarriba sulla salute mentale etc etc. I poliziotti ci consigliano di chiedere un permesso, anche per le foto, al medico di guardia che andiamo subito a cercare. Lo troviamo in mezzo al piazzale desolato dell'ingresso, barcollante perchè muj emborracciado, cioè ubriaco fradicio, come spesso capitava anche ai medici dei nostri manicomi un tempo, mi suggerisce Ugo in risposta al mio sguardo sconvolto e interrogativo.  Per il medico di guardia non c'è problema (immagino ne abbia altri...) se entriamo, andiamo alla Colifata, se fotografiamo, filmiamo..insomma tutto a posto. Entriamo allora dentro questo grande mostro del Borda di cui tanto abbiamo sentito parlare (anche nei giorni precedenti durante incontri e scambi con gli argentini) e che ha acceso tante nostre fantasie. La fatiscenza e l'abbandono sono il primo forte segno che ci colpisce, come se fosse man mano venuta meno  l' intenzione a mantenere  viva quella struttura da parte di chi la governa, di chi la vive, di chi ci lavora, perchè ha già da tempo perso il suo senso sociale, il suo significato di cura se mai l'ha avuto, il suo ruolo nella comunità. C'è gente che circola per i corridoi ma sembra quasi che nessuno ci veda. Noi fotografiamo e ci chiediamo alcuni perchè seguendo il passo svelto di Ugo che ci porta verso il cortile. Passiamo a fianco di camerate con le finestre coi vetri rotti e persiane divelte,  dentro ci sono persone sedute che ci guardano assenti, percorriamo corridoi con i muri scrostati o pieni di scritte, alcuni murales o opere artistiche alle pareti sono sommersi da scritte e macchie, in alto sopra alle porte ci sono le classiche insegne che ci ricordano che, nonostante le apparenze,  siamo dentro ad un ospedale in funzione: reparto dr. R. Drinelli psichiatra. Continuamo a seguire Ugo, finalmente entriamo nel cortile del Borda e ci troviamo in mezzo ad una sorta di foresta tropicale di alberi grandissimi e verdi, cespugli incolti e pieni di vigore, ruderi di quelli che dovevano essere vecchi reparti. Solo un muretto che costeggia tutto attorno è integro e pare da poco verniciato: è il muro di recinzione del carcere psichiatrico. Continuiamo il nostro percorso lungo sentieri e marciapiedi sconnessi, ogni tanto incontriamo qualcuno che va e che viene, e finalmente ci avviciniamo al punto dove la Colifata fa la sua trasmissione. Già da lontano sentiamo la musica e alcune voci, la trasmissione è già iniziata e allora ci avviciniamo con cautela. E' un piccolo piazzale, a ridosso di un caseggiato dismesso che funge da ripostiglio, sotto l'ombra degli alberi  un cerchio di sedie con 20 forse 30 persone e al centro la consolle con computer, il mixer e una ragazza che conduce. Ci vedono e ci salutano con molto calore, senza interrompere il loro lavoro,  qualcuna di noi riceve anche un baciamano, ci fanno sedere e entriamo automaticamente e magicamente dentro la trasmissione. Non c'è un confine, questa è la magia, sei lì e quindi sei dentro questo cerchio della comunicazione e del diritto di parola. Come per noi, così è per tutti. Ci sono i professionisti della radio, si riconoscono i facilitatori, i vecchi frequentatori ed animatori ma chiunque passi da quel luogo (immaginiamo un parente in visita o un cittadino che deve fare una visita specialistica, o un qualsiasi internato che cammina delirando) ha diritto di espressione. Dalla consolle continua il gingle di accompagnamento alle presentazioni, un ritmo allegro e incalzante che fa venire davvero voglia di parlare e raccontare, e così anche noi ci presentiamo. Il palinsesto è scritto su una gigantesca lavagna appoggiata al muro e man mano che la trasmissione procede una ragazza cancella il passaggio avvenuto: le presentazioni, un racconto autobiografico a cura di Rosa, l'evento della settimana raccontato da el pacalito, gli auguri di compleanno per uno dei più vecchi internati e frequentatori della radio, la languida Luciernaga curiosa cantata a fil di voce dal mitico Hugo Lopez (uno dei fondatori ed ex internato) e ad un certo punto non può mancare un, pare,atteso da tutti: una Raffaella Carrà a tutto volume che ci fa scatenare in danze furiose.

Non mancano telefonate in diretta, di cui capiamo poco, purtroppo.

Rimaniamo dentro al cerchio magico per qualche ora, ammaliati dall'atmosfera paradossale di libertà che si respira finchè le prime gocce di un potente  acquazzone  non ci riportano alla realtà. Salutiamo con baci abbracci e tanti ringraziamenti e saluti per l'Italia e riprendiamo la via dei tortuosi corridoi per raggiungere l'uscita e cercare un taxi.

venerdì 13 febbraio 2009

Buenos Aires – giovedì 27 Novembre 2008

Un pomeriggio a teatro 

E’ un torrido giovedì pomeriggio di novembre, a Buenos Aires.

Con Virna, Emilia e Claudio decidiamo di andare a teatro presso la sala del A.T.E. (Asociacion de Trabajadores del Estado). C’è in programma la rappresentazione di “El Burgues Gentilhombre” di Moliere, messo in scena dagli ospiti dell’Hospital de Dìa, Hospital Nacional Prof. Alejandro Posadas. Come lo sport e la musica, anche nel sud del mondo, il teatro si rivela nella sua funzione universale: una grande occasione di incontro.

Prendiamo un taxi al volo semplicemente alzando un braccio (come nei film e ci piace tanto) ma restiamo imbottigliati nel traffico nei pressi di Plaza de los Dos Congresos a causa di una manifestazione di piazza contro il governo. Scambiamo quattro chiacchiere con il taxista che è figlio di un calabrese emigrato a Buenos Aires in cerca di fortuna nell’ultimo dopoguerra; parla un argentino italianizzato che si  comprende bene: ci racconta che nei giorni del default del 2001 i parlamentari uscivano di nascosto “come topi” dal parlamento per paura della reazione della gente ridotta quasi alla fame. Il taxi procede a passo di lumaca, il taxista ci chiede cosa facciamo da questa parti, e un coro di voci si leva dal sedile posteriore “per chiudere i manicomi” e io, contralto, “per aprire i manicomi”. Lui ci guarda perplesso, non capisce e noi spieghiamo: chiuderli perchè non esistano più luoghi di emarginazione e di violenza istituzionalizzata; aprirli per far uscire le persone e restituire loro libertà e dignità anche nella cura.

Il taxi è praticamente fermo, siamo in ansia perchè non vogliamo arrivare tardi. Nonostante il caldo opprimente decidiamo di proseguire a piedi, usciamo dalla zona congestionata dal traffico, il teatro è ancora lontano ed è tardi, decidiamo allora di prendere un altro taxi. Finalmente arriviamo!!!

Veniamo accolti con calore, ci consegnano un programma di sala in italiano che apprezziamo con gratitudine e sollievo. Lo spettacolo è appena iniziato. L’impatto scenico è forte, gli attori sono bravi e simpatici, la scenografia è essenziale, i costumi sono evidentemente fatti con pochi mezzi e tanta buona volontà e creatività. Lo sguardo scorre sulle persone, sui gesti, sui movimenti da guitti, apprezzo la cura e la passione per quello che stanno facendo. L’unico punto dolente è che parlano troppo velocemente in argentino e purtroppo mi sfuggono la maggior parte delle battute, per fortuna l’universalità del linguaggio del corpo teatrale facilita la comprensione delle situazioni e alcune di queste suscitano la nostra ilarità.

Dopo lo spettacolo incontro gli attori e la regista mentre insieme sorseggiano il mate nelle loro piccole zucche con le cannuccie di bambù, me lo offrono con generosità. Ho provato una grande tenerezza nel vederli lì, giù dal palco con ancora il trucco di scena sul viso, più timidi e schivi, gli abiti ripiegati nelle sporte, i pezzi di scenografia appoggiati per terra….. Sono curiosa, comincio a fare domande e mi rispondono prima timidamente poi via via sempre più sciolti, ci tengono a raccontare la loro esperienza e modulano la lingua e la gestualità per farsi capire. E ci riescono! Mi dicono che il gruppo nel suo insieme cura ogni parte dello spettacolo: dalla scelta della rappresentazione da mettere in scena alle attribuzioni dei personaggi agli attori, dalla scenografia ai costumi, dalle musiche alle luci. Mi raccontano che si incontrano per tre, spesso quattro, pomeriggi alla settimana nelle due stanze che hanno a disposizione al  Servizio de Psichiatria. L’impegno più grande è quello richiesto dall’interpretazione dei personaggi, come ciascuno di loro entra nella parte e rende il personaggio credibile. Gli attori continuano il gioco comico della commedia: Alejandra mi dice “Io sono Nicolaza! la interpreto facilmente, con mucho gusto!”, Damian fa intendere di avere il fascino di Cleonte e i suoi compagni ridono.

Ana Laisa è l’unica attrice professionista del gruppo, si occupa della regia e dell’organizzazione dello spettacolo. Mi spiega che il gruppo decide anno per anno su quale testo teatrale impostare il laboratorio che si conclude necessariamente con uno spettacolo. Su questo punto siamo più che d’accordo: non c’è teatro senza pubblico! Il lavoro si può definire compiuto solo attraverso le suggestioni e le emozioni suscitate negli spettatori. E’ questo il bello del teatro: alimenta i processi di espressività di sé, di relazione interpersonale e di creazione di cultura sia per chi lo fa che per chi assiste.

Arriva il pulmino il gruppo è impegnato nel caricare gli arredi e gli oggetti di scena per riportarli alla loro sede, ci salutiamo con calorosi baci, abbracci e scambi di mail.

Tra noi, lì, nell’atrio del teatro, si è creato un buon clima, di parole e di pelle, mi sono sentita parte di un gruppo più grande, persone accomunate nell’idea che il teatro è un luogo per sognare, per nutrire le emozioni, per fare scoperte sul senso stesso della vita.  

Monica di Ferrara 

martedì 3 febbraio 2009

PatasArriba pensiero

Un viaggio contro ogni pregiudizio per un mondo senza manicomi.

Questo è lo slogan stampato sulla bandiera che per 10 giorni ci ha accompagnato nel geometrico dedalo stradale di Buenos Aires, tra la gente, nei manicomi, nei ristoranti, alle partite di calcio e nei mercati che abbiamo attraversato in taxi o in bus o più semplicemente a piedi.

Ogni persona incontrata che pensava di condividere il nostro pensiero ha messo una firma sulla bandiera azzurra o su quella gialla o su tutte e due. Posso testimoniare che le firme raccolte sono tante, che è un buon segno.

Ma un tratto di pennarello, per quanto grosso, non cancella il pregiudizio, lo stigma. Sono i muri edificati dentro la testa delle persone, che sono fatti di mattoni e malta molto più resistenti di quelli degli edifici.

Qui in Italia siamo fortunati perchè almeno i muri fisici sono stati picconati e abbattuti. Ci ha pensato Franco Basaglia, promotore della Legge 180/78, che ha permesso in questi 30 anni, ai nostri concittadini che hanno problemi di personalità, di depressione, di mania, di autismo o semplicemente di solitudine di avere la possibilità di guarire o almeno di condurre una vita come tutti gli altri, con un lavoro, una casa, un amore e delle chance. Certo i problemi non mancano ma da quando in qua esiste una cosa perfetta?

In questo viaggio ho avuto il compito di riportare a casa un po' di momenti immortalandoli con la mia nikon. Riportare a casa i ricordi e le emozioni con un linguaggio che mi è più appropriato di quello scritto. Un mezzo come un altro per promuovere e per muovere le persone che di questi argomenti sono a digiuno o che non hanno idea di cosa significhi disagio mentale. Credo che le persone dovrebbero essere informate e magari vivere delle esperienze perchè possano rendersi conto che la realtà non cammina dall'altra parte del marciapiede ma che è lo stesso vestito con   il quale sta camminando.

Ci siamo resi conto che in Argentina la strada è ancora lunga e accidentata, ma le scarpe sono buone e si sta compiendo qualche passo nella direzione, dico io, giusta.

Ogni piccolo passo è un passo importante verso l'inclusione sociale e il riconoscimento dei diritti non solo per chi sta in manicomio, ma per tutte quelle persone che hanno difficoltà ad essere accettate dalla società perchè considerate diverse. 

Per questo il viaggio che abbiamo fatto non è stato solo un viaggio per conoscere, uno scambio culturale o un divertentissimo carnevale, ma nella promozione della salute mentale, un veicolo di valori universali che ci fanno ricordare che non esiste solo il nostro orticello dietro casa o l'avidità o l'egoismo e la paura, ma che siamo tutti nodi di una rete che ci lega. 

L'arrivo all'aeroporto di Buenos Aires, per me che non sono mai uscito dalla vecchia Europa, è stato proprio come l'ingresso nel nuovo continente e mi sono sentito come una gallina spelacchiata che esce dal pollaio per la prima volta, curiosa è un po intimorita ma sostanzialmente emozionata.

Il mio destino per fortuna non è stato quello di fare un buon brodo, ma quello, adesso che sono tornato, di fare felice me stesso e chi mi circondava, portando corpo, anima e le loro funzioni tra tanti altri corpi e anime.

Sono stati 10 giorni molto intensi, insieme agli Special Boys di San Giorgio di Piano e di tutta l'Emilia Romagna, oltre a delegazioni provenienti da tutta Italia.

Ho visto lo stadio del Boca Junior di Maradona e ascoltato il tango in calle Caminito immerso nei colori delle case rivestite di metallo e dipinte con la vernice delle barche.

Ho visitato il manicomio Borda con la sua, o meglio, la loro Radio Colifata, gestita da pazienti ed ex pazienti, ho visto il parco realizzato in memoria dei desaparecidos, ho visto l'hotel Bauen, occupato dai lavoratori, ho visto il manicomio di Torres, dove ci sono già esperienze avanzate di uscita delle persone dalla struttura.

Ho viaggiato sui taxi gialli e neri e ho visto la pioggia torrenziale di Buenos Aires, ho partecipato alla Murga a La Plata dentro a un corteo coloratissimo e scanzonato al ritmo dei tamburi urlando “no ai manicomi” e ho ballato la musica di gruppi locali al barrio Matadero insieme alle donne dell'ospedale psichiatrico per mujeres. Sono stato all'università di Bologna in BsAs a sorbirmi le belle parole dei dottoroni, ho visto la plaza de Majo, centro nativo della città e ho passeggiato per il mercato di San Telmo tra posate d'argento, cipolloni e bottiglie per la soda.

Ho anche baciato una hostess svedese in una delle serate in giro per Buenos Aires a ballare e a chiaccherare con una birra in mano e ho immaginato il terrore della dittatura militare ascoltando le storie dei desaparecidos, delle rappresaglie e dei voli della morte, dalla bocca di due studenti di vent'anni; ho letto il nome di molte persone morte per l'avidità di pochi.

Ho letto Mafalda e l'Eternauta. Ho sentito il fervore nelle parole di chi “lucha”, lotta, per la difesa del suo lavoro e dei suoi diritti fondamentali.

Ho mangiato il lomo di chorizo con fritas, la milanesa con rusa e ho bevuto la Quilmes e lo yerba mate con Dolores, una bella psicologa che vive con 300 euro al mese. Ho conosciuto persone colte e divertenti, giocherellone o maniache del caffe e delle sigarette. Ho conosciuto persone che si spaventano per un topolino e chi beve birra per calmarsi. Ho visto partite di calcio con tifi da stadio e persone con la testa schiacciata, senza arti o con la bava alla bocca e l'ho abbracciata per fargli sentire che anche se non potevo rimanere li siamo stati fortunati a conoscerci.

Ho parlato “castellano” o “argentino” e ancora dieci giorni e diventava la mia seconda lingua.

Ho scoperto un altro pezzo di me stesso e l'importanza delle persone.

Davide