giovedì 15 gennaio 2009

A proposito di Norma, Lorena, Andrea… - venerdì 28 novembre

Giù nell’albergo si palesa quel ‘caso’ che ci fa fare incontri inattesi, scoperte che ci cambiano lentamente o ci trasformano repentinamente.

C’è un gruppo di amici romani che decidono di andare al manicomio femminile di Esteven, non è nel mio programma , ma la cosa mi piace, mi metterà in relazione con una realtà ruvida, carica di ferite “ma perché ritrarsi dinanzi a questa occasione?… che ci faccio qui altrimenti ?”

E’ quasi mezzogiorno quando arriviamo ai cancelli di Esteven (curioso in questa parola ritrovo la famigliarità di un suono, gli Este della mia città!): recinto ben custodito,abitato da circa 1300 donne, le guardie stanno lì a decretare chi può entrare e chi può uscire, stanno a salvaguardia degli onesti cittadini, occhio vigile di questa cittadella protetta.

Le macchie di verde si alternano a edifici di varie dimensioni, non percepisco incuria ma una placida normalità. Una giovane donna, psicologa, ci viene incontro, ci dà il benvenuto, passiamo quindi al centro diurno, somiglia a quello che conosco, a quelli di Ferrara, si svolgono attività di pratica manuale ma anche esperienze artistiche e formative. Son circa trecento le persone che lo frequentano, si lavora sull’alfabetizzazione; i frequentatori vengono preparati ai corsi scuola primaria e secondaria, insomma è un ambiente costruttivo. Capisco che lo sforzo degli operatori somiglia al nostro, anzi loro forse hanno l’entusiasmo che accompagnava sicuramente i nostri colleghi in Italia negli anni ’70, vogliono confrontarsi, la loro passione ad interrogarsi è potente, ci chiedono “che impressione ricevete da tutto ciò?”.

Proseguo attraverso il giardino fino ad un locale vuoto dipinto di verde intenso, da lì, attraverso un lungo corridoio, scorgo un’infilata di camerate e a quel punto il respiro cambia, mi accorgo che lo sguardo vuole scrutare ma impercettibilmente, con cadenza sconnessa, si abbassa a guardare il suolo.

Eppure sono lì in quel momento e devo guardare!
Tanti letti che decostruiscono lo spazio, gli uni addossati agli altri, spezzano quei vuoti che rendono il nostro abitare…umano.

1.
Donne sopra i letti, sotto coperte, a mostrare forme accucciate.
Deprivazione dei luoghi che ci costituiscono in quanto persone.
Una ragazza mi conduce al suo ‘posto’, mi mostra il suo letto, il suo comodino, non capisco se sia una denuncia o voglia di rendermi partecipe di quel covo che l’accoglie.
Entro in un refettorio dove un’infermiera sta con un piccolo gruppo di ricoverati, è in quel posto da 27 anni, sorride, sembra che il lavoro non le pesi, sta invecchiando con quelle donne, penso che deve essere stata una vita dura e per questo la serenità di quel volto mi turba.
Torno nel grande salone verde e qui riconosco le figure tonde di Norma e di Lorena. Erano loro che ballavano con me qualche giorno prima alla festa del matadero. Là abbiamo cantato, abbiamo ballato, ci siamo incontrate nel tempo libero della festa…mi incupisco un po’. Sento la profonda differenza con l’attuale fluire del tempo.
Mi mostrano con orgoglio la spilletta di patas arriba, sigillo di riconoscimento.
Mi viene in mente alla festa la bella voce di Lorena, quel suo sorriso devastato, il viso rotondo, gli scuri capelli neri…mi accorgo ora che porta il pannolone.
Ma come…alla festa era continente!
E Norma, tracagnotta e fracassona.
Lorena mi prende per mano e mi conduce, sicura, nella camera dove dorme – si avverte bene che non vede l’ora di mostrarmi qualcosa che le sta veramente a cuore – tra pochi armadi e tanti letti, c’è il suo e lì a cavallo della testata indica la sua camiseta, una camicia da notte grigia, sporca, butterata di buchi: la stoffa che l’accompagna durante la notte, che avvolge i suoi sogni.
Attraversando quegli spazi vedo i bagni, le docce primitive e osservo che i gabinetti sono chiusi, chiedo e vengo informata che durante il giorno vengono tenuti serrati a chiave e capisco il perché delle persone accucciate viste nel parco, dei sessi scoperti lungo i percorsi.
Segni di istituzionalizzazione, regole che accomunano gli universi concentrazionari.

2.
Passando nei corridoi mi compare e subito scompare una giovane donna che per attirare la nostra attenzione, corre da una stanza all’altra emettendo suoni di richiamo in un movimento divertito e sempre frontale, cerca il nostro sguardo.
Non mi sono accorta che la macchina fotografica che porto al collo diviene il centro d’attenzione di una donna robusta che abbraccia un grande bambolotto. Non mi lascia scelta: vuole una fotografia per sé e per il suo compagno. Chissà come si chiama quel finto bambino che non molla. Sembra comunque una madonna gioiosa che vuole un ritratto per lei col suo piccolo.
E la privacy? mi chiedo. Non voglio fotografare lei ma solo la sua bambola. Poi l’operatrice che le sta accanto mi fa capire di lasciar perdere questa storia della privacy, questo rigido protocollo che, usato ormai in modo stolto, corrode i rapporti tra le persone. Mostro il risultato dello scatto alla donna che esplode in una fragorosa e trascinante risata di stupore – eppure avrà visto altre foto! – che vuole richiamare l’attenzione di chi le sta intorno. Bisognerà proprio che, una volta a casa, le mandi una stampa.
Mi chiamano, è ora di andare, saluto Norma e Lorena, ci diamo appuntamento a Plaza de Majo sabato, a far festa, per stare insieme e dire chi siamo, ciò che pensiamo, ciò che vogliamo: sarà un’altra festa di patas arriba.
Sto per uscire quando sento una voce, sta chiamando proprio me: Daniela, Daniela…
Mi giro, è una vera epifania! La frequenza del respiro cambia di nuovo.
Quando siamo fuori dal nostro Paese, sentirci riconosciuti all’improvviso ci getta in un profondo stato di sgomento e di felicità, se questo poi accade in un manicomio, l’effetto si amplifica.
E’ Andrea, anche lei l’ho conosciuta alla festa, qualche giorno prima, viene verso di me e dice a chi le sta vicino e dice indicandomi: “lei è disponibile a metter la firma per farmi uscire di qui”.
Ora, allorché una persona cercasse negli altri una definizione di se stesso, cosa potrebbe desiderare di meglio? Nella semplicità di quella frase venivo descritta per la forza di una volontà, di un gesto. Mi commuove l’essere riconosciuta, l’esser vissuta come una che si batterà per la sua uscita.

3.
Qui , in questo momento , non c’è retorica, non c’è ideologia, c’è un groppo alla gola difficile da controllare.
Andrea mi ha segnato, quando l’ho incontrata alla festa mi ha insegnato a ballare. Mi ha chiesto se son sposata, se ho figli…era l’incontro tra due donne che volevano sapere l’una dell’altra.
Io le ho chiesto se conosceva le ragioni per cui si trovava in manicomio.
Con tranquillità mi ha spiegato che litigava con suo padre, che l’aveva presa una depressione post-partum, che aveva tre figli…ho commentato che era stata più generosa di me che ne ho uno solo…abbiamo riso.
Belli i suoi 43 anni , portati bene, con i capelli ben legati, ironica, si augurava di entrare presto nel progetto PREA con la possibilità di uscire dal manicomio.
Anche lei mi saluta e dice “Ci vediamo a Plaza de Majo”
“Sì, ti cerco!” le rispondo.
Mi avvio finalmente all’uscita ma prima di salire sul taxi mi giro. Vedo una ragazza seduta su una panchina con un’altra persona, piange e saluta. Non capisco: si rivolge verso di noi che usciamo? Ce l’ha con la persona a fianco?
Che fatica comprendere!
Sabato, alla Plaza de Majo piove, non ci sarà la festa. Peccato!
Se esistere significa uscire da se stessi, io lì a Esteven ho sentito che esistevo insieme ad altre donne che non erano libere e che la mia libertà può passare solo attraverso la loro. Anche se sabato è piovuto io comunque “metterò la mia firma per Andrea, Lorena, Norma…” e ci sarà tempo per tornare a far festa alla Plaza de Majo.

Daniela di Ferrara

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