giovedì 15 gennaio 2009

UNA GIORNATA DA MANICOMIO - giovedì 27 novembre

Sveglia alle ore 6.30, veloce colazione e via di corsa all’appuntamento con la delegazione di atleti dell’ANPIS nazionale, invitata a partecipare a un evento sportivo all’interno dell’Ospedale Psichiatrico Colonia Montes de la Oca. Una partita di calcio con la squadra che si è costituita da pochi anni nella struttura psichiatrica. Ne fanno parte persone ricoverate all’interno dei padiglioni, infermieri e operatori della Colonia. Sono guidati da un insegnante di educazione fisica. Gli allenamenti della squadra si tengono tre volte alla settimana: lunedì, mercoledì e venerdì. L’allenatore della squadra è una delle tante figure non sanitarie che incontreremo nei circuiti della nuova psichiatria argentina.

La Colonia di Montes de la Oca ha compiuto il suo centesimo compleanno proprio qualche giorno fa. Si trova a circa 70 chilometri da Buenos Aires, isolata in mezzo alla campagna a circa un chilometro dal più vicino centro abitato.

Si parte, siamo circa una trentina e ci spostiamo con un piccolo pulmann e tre auto. Portiamo un messaggio speciale: sostenere il lavoro di superamento e chiusura degli Ospedali Psichiatrici, solidarizzare con le persone, donne e uomini ancora ricoverate e affermare la necessità di creare nuove opportunità.

Insieme a noi si muove anche una troupe di cineasti che dovrà documentare l’incontro di calcio.
Alle 10 siamo ancora in viaggio. L’autista sembra aver perso la strada. A un certo punto i dubbi svaniscono: l’ha proprio persa.

Percorriamo strade improbabili alla ricerca di qualcuno che ci dia indicazioni giuste o quantomeno… probabili.

Mentre sono in macchina, assisto con disinteresse ai tentativi dell’autista di ritrovare la strada, immagino che la distanza della Colonia dai maggiori centri urbani, il cattivo stato delle strade, il costo per raggiungerla, siano stati tutti fattori per ostacolare il desiderio dei familiari di raggiungere i loro congiunti ricoverati. La rarefazione forzata di queste visite deve aver contribuito in maniera determinante ad alimentare il vissuto di isolamento e di abbandono di chi vive in questa Colonia.

Montes de la Oca, come tutti i manicomi del mondo, è collocato lontano dai luoghi di vita in cui le persone ricoverate sono cresciute e in parte vissuto. Ciò costituisce un nuovo elemento di spoliazione dell’umanità di queste persone e contribuisce a renderle tutte uguali nella loro disperazione.

Un cartello sulla sinistra ci indica che siamo arrivati. A destra, da un casello escono alcuni uomini della sicurezza. All’autista viene rilasciato un permesso e finalmente entriamo. Attorno a noi si aprono grandi spazi coperti da una vegetazione che crea una piacevole ombra nella calura di questa calda primavera argentina. Lungo i corridoi che scorrono mentre ci avviciniamo al luogo in cui si terrà l’incontro di calcio si vedono file di persone che camminano verso l’uscita. Abbiamo l’impressione che siano dei ricoverati con degli accompagnatori. Dopo un po’ vediamo dei bambini e degli adulti in bicicletta che si muovono nella direzione opposta.

Arrivati al luogo dell’appuntamento veniamo avvicinati da alcune persone che vivono all’interno dei padiglioni . Si avvicinano chiedendoci in spagnolo qualcosa che facciamo fatica a comprendere. Noi rispondiamo con un “buenos dias”, “como estas”, “cual es tu nombre” : sono le uniche affermazioni che provocano una risposta e che aprono a un sorriso.

Quando la comunicazione si fa più complessa si passa al linguaggio gestuale, accompagnato da frasi o parole in uno spagnolo molto improbabile. C’è chi chiede una foto, un cigarillo, chi protende la mano per stringere forte la nostra in segno di saluto e chi, commuovendoci, prende la nostra mano e se la passa sul volto alla ricerca di una carezza.

I volti e i corpi deformati dall’istituzione, gli sguardi altrove nell’attesa di essere scoperti, le voci gutturali che richiamano, in quello sforzo di comunicare, alla voglia di vivere e di scoprire il mondo nonostante tutto, mi ricordano volti corpi sguardi voci che ho già incontrato a Imola, all’Osservanza. Quelle immagini riemergono con forza dal passato. Il manicomio annichilisce tutti allo stesso modo, a ogni latitudine, ovunque ci si trovi sul nostro pianeta.

Mentre la partita prosegue, finirà 7 a 6 per gli argentini, mi fermo a parlare con un gruppo di spettatori che si trovano a bordo campo ad assistere all’incontro. Tra di essi vi sono donne e uomini ricoverati nella colonia , un infermiere e due assistenti di base. Mi chiedono da dove veniamo. Gli rispondo che siamo italiani. Quando aggiungo che in Italia non ci sono più i manicomi rimangono stupiti e incuriositi.

Facciamo conoscenza e ci scambiamo informazioni. Ogni tanto tra gli spettatori qualcuno si alza e mi stringe la mano in segno di saluto.Vengo a conoscenza che il figlio di Videla(capo dei capi della dittatura militare, responsabile del grande macello degli anni 70), affetto da un grave ritardo mentale, ha vissuto fino alla fine dei suoi giorni nel padiglione che ospitava le persone più difficili e più gravi, “i senza speranza”.

Durante lo svolgimento della partita di calcio incontriamo il Direttore dell’Oca, Jorge Rossetto, uno psicologo, a cui chiediamo di poter visitare la Colonia. Jorge non si fa pregare e ci mette a disposizione un pulmino consigliandoci la visita ad alcuni luoghi significativi che segnalano il processo di mutamento avvenuto in questi ultimi anni.

Visiteremo due padiglioni femminili in via di ristrutturazione, un centro diurno e una casa interna alla Colonia. Nel programma che ci propone il direttore è prevista anche la visita a un centro diurno e una casa affittata, “La casa del sol”, collocate nel paese vicino, fuori dalla struttura psichiatrica. Purtroppo non riusciremo a far visita a questi due ultimi luoghi per motivi di tempo.

Saliamo sul pulmino e ci avviamo col responsabile della riabilitazione a visitare i luoghi che il direttore ci ha suggerito. Arriviamo davanti a un padiglione, le porte non sono chiuse e le persone circolano dentro e fuori la struttura liberamente. Attualmente ospita donne diagnosticate come psicotiche che prima di venire a vivere qui erano particolarmente aggressive verso se stesse e verso gli altri. Ci racconta la nostra guida che dopo qualche mese di vita nella nuova struttura quei comportamenti erano praticamente scomparsi. Curiosi, chiediamo di sapere il perché.

Ci risponde che la migliore organizzazione degli spazi e la maggiore attenzione alle persone frutto di una maggiore disponibilità di risorse umane avevano fatto il miracolo… L’ambiente strutturalmente è quello dei grandi edifici manicomiali. Al proprio interno vi è un laboratorio espressivo e una palestra in cui fare ginnastica o psicomotricità. Notiamo lo sforzo di rendere gradevole e accogliente l’ambiente di vita nonostante la povertà di risorse. Vi sono tende e copriletto colorati. I bagni sono decorosi .Non le turche , alle quali, ricordo, erano abituati i ricoverati di Imola dell’Osservanza, ma water con ciambella e porte che proteggono la privacy delle persone. Le docce sono a vista. Esiste uno spazio per la lavanderia adatto a mantenere una migliore conservazione degli abiti evitando, tra le altre cose, il rischio che i propri indumenti vengano smarriti o indossati da altri come accadeva all’interno dei reparti dell’Osservanza i primi anni che sono arrivato a Imola. A prima vista sembra una cosa di poco conto, ma a pensarci bene è una cosa estremamente importante perché permette alle persone di ricominciare a investire sugli oggetti, a dare continuità alla propria storia, interrompendo il processo di impoverimento esistenziale iniziato con il loro internamento.

Scambiamo qualche parola con la responsabile del padiglione e ci colpisce la grande umanità che ci trasmette attraverso i suoi gesti e le sue parole. Parliamo con alcune donne ricoverate in attesa del pranzo e quando una di loro ci riconosce come italiani ci informa che una delle signore che abitano in quel padiglione sta studiando la nostra lingua. Questo ci pare essere un segnale di qualcosa che sta cambiando: si sostengono e si investono risorse attorno ai progetti che le persone decidono di intraprendere. Si lavora per restituire un futuro.

Lasciamo il padiglione salutandoci affettuosamente e ci dirigiamo verso un altro che ospita donne con un ritardo mentale. Anche qui gli spazi di vita e l’organizzazione del lavoro hanno subito sensibili cambiamenti rispetto a prima . Qui sono cambiate molte cose e un segnale lo si coglie dal fatto che prima delle trasformazioni attuate il consumo dei pannoloni era esagerato. Alle persone veniva messo e tolto il pannolone rispondendo a un bisogno dell’istituzione di ottimizzare le prestazioni. Non ci si preoccupava del fastidio che avrebbe procurato alle persone ricoverate tenersi addosso, per ore e ore, il prodotto delle loro evacuazioni intestinali o altro. E’ stato sufficiente trasformare gli spazi di vita personalizzandoli, promuovere progetti mirati, aumentare il numero degli operatori, il tempo di ascolto riservato alle persone ricoverate,in modo che acquisissero, poco a poco, una maggiore consapevolezza del proprio corpo e delle sensazioni ritrovate. E’questo nuovo atteggiamento, questa attenzione alla persona che ha permesso la drastica riduzione dell’utilizzo dei pannoloni.

In questo clima rinnovato, ci informa il nostro accompagnatore, uno sguardo particolare è riservato all’uso dei farmaci.

La tendenza è quella di abbassare il dosaggio. I farmaci, ci dice, debbono servire a far star bene le persone e non possono essere usati per sedarle e renderle innocue. Questo obbiettivo può essere raggiunto tenendo impegnate il più possibile le persone durante tutto l’arco del giornata in attività, facendole partecipare anche alla gestione della quotidianità nel reparto, ai momenti organizzati presso il laboratorio espressivo allestito al pian terreno del Padiglione, ma soprattutto rendendole partecipi delle scelte.

Salutiamo tutte le persone incontrate e ci avviamo verso il Centro diurno. Inaugurato tre anni fa, si presenta ai nostri occhi come una piazza riparata dal sole cocente da una copertura sostenuta da una struttura metallica. A destra e a sinistra dell’entrata notiamo una fila di casette basse.

Una bellissima poesia di un poeta uruguaiano, dà il benvenuto a chiunque entri negli spazi riservati alle attività che si svolgono nel centro.

Claris ed Ector, ci raccontano con entusiasmo del loro lavoro basato sul coinvolgimento delle persone nella gestione del Centro, sul recupero della storia personale, delle origini, sulla costruzione di un sentimento di appartenenza lontano dalle logiche alienanti e annichilenti del manicomio. Ci raccontano della preparazione di un libro con le storie narrate e disegnate dalle persone che frequentano il Centro. Una volta concluso, il libro verrà diffuso gratuitamente nelle scuole. Ci parlano del lavoro fatto fino a ora per creare un legame con la comunità più vicina alla Colonia e di quello che stanno preparando in occasione del Natale. Mettono l’accento sul lavoro che si fa attorno all’ immagine corporea al fine di recuperare le capacità sensoriali sopite dopo tanti anni di vita nel silenzio assoluto dell’istituzione manicomiale.

Ci dicono che molte persone potrebbero ritornare a casa. Ci parlano dell’indispensabile lavoro con le famiglie e delle risorse che riescono a mettere in campo sorprendendosi a loro volta nel superare le aspettative, della necessità di dare gli strumenti ai familiari per prendersi cura del loro congiunto, della sorpresa che manifestano quando si accorgono che non bisogna essere necessariamente un infermiere o uno psichiatra per rispondere ai bisogni di chi dopo tanti anni ritrova i propri parenti e torna a vivere con loro.

Nessuno glielo aveva detto prima, avevano sempre creduto che dovesse essere l’istituzione psichiatrica a pensare come curare i loro figli in difficoltà. Sono convinti che non bisogna colpevolizzare le famiglie, ma responsabilizzarle e permettere loro di essere parte attiva all’interno del processo di cura.

Ci raccontano la storia di una donna che aveva trascorso in silenzio gran parte della sua vita all’interno del manicomio e aveva ricominciato a parlare dopo essere ritornata nel suo paese di origine, presso la casa nella quale aveva vissuto fino poco prima di essere ricoverata.

Dopo la visita alla piccola fattoria che fa parte del centro, aver salutato calorosamente le straordinarie persone che abbiamo conosciuto, ci muoviamo per visitare un'altra struttura realizzata da pochi anni all’interno dell’area della Colonia, una casa che ospita temporaneamente un gruppo di persone che prima o poi andranno ad abitare nel paese vicino, in un appartamento in affitto, con il sostegno di alcuni “operatori convivenziali”.
Prima di ripartire passiamo dall’ufficio del direttore della Colonia per restituire le nostre impressioni ed avere un momento di confronto.

Ci informa che dal 2004 a oggi circa 400 persone hanno lasciato l’istituzione manicomiale grazie ai numerosi progetti di esternalizzazione realizzati. Scopriamo con piacere che Jorge Rossetto è a conoscenza del progetto Valerio, del processo, cioè, che ha portato al superamento degli ospedali psichiatrici di Imola, che questa esperienza e’ stata oggetto di attenzione e riflessione per impostare il suo lavoro di trasformazione dell’ospedale psichiatrico in cui opera.

All’improvviso le distanze si riducono, quegli 11000 chilometri che ci separano da Imola sembrano per un attimo svanire, sembra di essere a casa. Al momento di ripartire per Buenos Aires, lasciamo la Colonia di Montes de la Oca accompagnati dalla bella sensazione che le cose stanno cambiando, e che la strada intrapresa per mutare direzione è quella giusta.

Ennio

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