mercoledì 21 gennaio 2009

Matadero - 26 novembre 2008

Siamo a Matadero, nuova tappa di avvicinamento al grande appuntamento di sabato in Plaza de mayo, giorno in cui si concluderanno le iniziative di Patas Arriba 2oo8.

Matadero è uno dei quartieri più poveri di Buenos Aires.

Arriviamo con i nostri pullman, scendiamo ed il primo approccio con l’ambiente non è dei migliori.

Un intenso e sgradevole odore di cui non riusciamo a scoprire l’origine pervade l’aria che ci circonda.

Tutt’intorno i negozi e le case presentano cancelli di protezione da eventuali furti. Notiamo che il supermercato che si trova nella zona pur essendo aperto al pubblico è protetto dalla presenza di solide inferriate lungo tutto il lato che costeggia il marciapiedi . Una porticina fatta di spesse barre metalliche, addolcite da una verniciatura di colore celeste permette l’entrata e l’uscita delle persone che vanno a comperare i generi alimentari.

Ci dirigiamo verso un parco pubblico al cui centro si erge un grande anfiteatro di cemento le cui gradinate son dipinte di un azzurro cielo. La temperatura è elevata e pensare di trascorrere alcune ore in quel luogo che sembra arroventato dal sole mette a dura prova la nostra voglia di partecipare a questo importante evento.

Un camioncino della protezione civile, poco prima dell’entrata distribuisce acqua a chi la desidera, per evitare problemi di disidratazione. Nell’area attorno all’anfiteatro ci accolgono gruppi di donne, che si proteggono dai raggi di un sole insidioso con dei cappellini di paglia intrecciata, con fazzoletti di cotone appoggiati sul capo e variopinti ombrelli. Sono donne provengono da un ospedale psichiatrico femminile che si trova nei paraggi nel quale vivono oltre 1000 persone. Le donne che incontriamo sono persone con le quali si sta lavorando per creare percorsi di reinserimento sociale nell’ambito del programma denominato PREA (Programma di riabilitazione e dimissione assistita). Tale programma è rivolto sia alle persone ricoverate per lunghi periodi in ospedale psichiatrico, che a promuovere la salute mentale nella comunità.
Man mano che passa il tempo il luogo del nostro raduno comincia a popolarsi di gente che inizia a prendere confidenza con gli spazi. Rimane la sensazione di essere all’interno di una grande padella in cui noi costituiamo gli ingredienti principali per realizzare una raffinata ricetta.
Aspettiamo che qualcuno prepari il soffritto. In fondo al padellone c’e un palco da cui partono voci e suoni discontinui e ripetitivi: un gruppo di musicisti e tecnici del suono si sta dando da fare per mettere a punto gli strumenti musicali, l’impianto audio, i diffusori ed i microfoni. Sembra che anche i suoni, come tutti noi, si sentano ancora stranieri e vaghino alla ricerca di un equilibrio nello spazio attorno a loro, un posto dove poggiarsi. Tutto questo dura finchè il primo gruppo comincia a suonare i coinvolgenti ritmi sud americani. Le note si destano dal loro condizione di straniamento provvisorio e si raccolgono in strutture musicali decise, ferme, risolute. La musica inizia a fluire ordinata e crea come d’incanto il collante necessario affinchè tutto si leghi. La musica chiede semplicemente al corpo di parlare senza parole . E’ la voglia di muovesi, di ballare, di giocare che ha bisogni degli altri per realizzarsi aiuta a superare ogni perplessità o timore. Con la musica non c’è bisogno di presentazioni, non bisogna conoscere lo spagnolo o l’italiano per stabilire un contatto tra la gente. In breve tempo un gruppo di persone anima, con il suo entusiasmo, lo spazio in fondo al catino e ciò agisce sugli altri come un forte richiamo: L’allegria è contagiosa e lo spazio per ballare diviene improvvisamente poco adatto, angusto a contenere l’entusiasmo che intanto si sta generando.

Leggendo il desiderio collettivo di trovare ristoro si materializza la presenza di un idrante che comincia a lanciare un potente flusso d’acqua nel settore della gradinate più esposta al sole cocente. Repentinamente quel luogo, fino a poco tempo prima, accuratamente evitato da qualunque forme di vita, si popola di corpi che richiedonoo attenzione, affinché il getto li colpisca trasformandosi in una energica doccia rinfrescante. In quel contesto, l’acqua che scorre sulle persone e sulle cose sembra moltiplicare l’intensità dell’incontro e dare a quell’elemento liquido una funzione inattesa di purificazione e cambiamento. Tutti siamo più che mai convinti che da domani….ma che dico!!... Fra meno di un’ora i manicomi spariranno dalla faccia della terra grazie a quel rito propiziatorio.

La giornata va avanti.

Tanti sono i gruppi che si alternano sul palco con le loro musiche trascinanti cosi come tanti sono i discorsi, facili prede di vigorosi applausi, che condannano i manicomi e mettono al centro la voglia di aprire in Argentina un nuovo capitolo nel campo della salute mentale. La musica è trascinante e premia la voglia, che c’è ed è forte, di ballare insieme. E’ una musica, quella che pervade l’aria intorno a noi, che unisce e che rende uguali nelle differenze: dove sono le donne alle quali l’Ospedale Psichiatrico voleva negare l’esistenza? la musica, la danza collettività le rende indistinguibili e rompe quell’arcano incantesimo che il manicomio rende possibile che trasforma l’umano in disumano ed i bisogni e i desideri in malattia.

Ah!!. Se il mondo fosse fatto di questo ritmo, di questa musica e di queste danze, un mondo senza manicomi sarebbe possibile.

Un concerto davvero speciale.

Ma cosa rende speciale questo concerto ?

Un concerto al quale stanno partecipando oltre 300 persone, un concerto con tanta bella musica ma sempre un concerto, un concerto come ce ne sono altri in giro.

A renderlo speciale è proprio la presenza di quelle donne esiliate, ultime della terra che il manicomio aveva tentato di rendere invisibili e che finalmente riescono a riscattarsi mostrando nei loro movimenti la forza della libertà che come uno strascico lucente e prezioso ci stordisce.

Che potenza!!
Che energia!!
E noi al confronto semplici comparse.

Il concerto si avvia verso la sua naturale conclusione.

Ad un certo punto quelle donne con cappelli a larghe falde e ombrelli variopinti ci salutano e si avviano verso l’ospedale che ancora le ospita.

Capiamo da quel segnale che, almeno per oggi, il manicomio sarebbe ancora esistito.

Ennio

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